Le grotte italiane in una rivista

 

Foto di www.LaVenta.it

A metà luglio sarà pubblicato il numero 68 della rivista “ “Speleologia”, il periodico ufficiale della Società speleologica italiana, e sarà un numero speciale in vista del Congresso internazionale che si terrà in Repubblica Ceca a fine luglio. L’edizione presto alle stampe conterrà infatti una catalogazione aggiornata delle grotte italiane e, quindi, della speleologia nel nostro Paese. “Questo numero speciale intende essere una sintesi delle conoscenze attuali della speleologia nel nostro Paese, oltre ad accennare brevemente alla storia della Società speleologica italiana”, ha dichiarato il Presidente della SSI Giampietro Marchesi. “Si tratta di un lavoro davvero corposo, nessuno dei precedenti 67 numeri della rivista ha mai avuto questo rilievo e questa cura”.  I migliori specialisti di ogni ambito di ricerca tratteranno in maniera sintetica alcune delle tante peculiarità esistenti, oltre ai fenomeni carsici di alcune tra le grandi aree carso-speleologiche italiane, dalle Prealpi lombarde ai monti Alburni in Campania. A nostro avviso la chicca della rivista è la cartina dell’Italia allegata, con la segnalazione delle evidenze e degli elementi maggiormente eclatanti dal punto di vista geologica e speleologico della penisola, dalle grandi sorgenti alle grotte più profonde. L’obiettivo naturalmente è dare un’idea al lettore della distribuzione delle aree carsiche presenti nel nostro Paese.
Per approfondire andate sul sito della SSI.

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LiDAR, nuovo sistema di rilevamento archeologico. Come oggi ad Angkor Wat

Immagine tratta da www.archaeolandscapes.eu

E’ notizia di oggi di un nuovo potenziale ritrovamento archeologico (questa volta ad Angkor Wat in Cambogia, come riporta questo articolo del Corriere di oggi) svelato grazie alla tecnologia Lidar. Ma cosa è questa tecnologia e come viene applicata in archeologia?
Il rilevamento LiDAR (acronimo per “Light Detection And Ranging”) è un sistema a tecnologia laser che serve per agevolare l’acquisizione di accurati dati di migliaia di punti della superficie terrestre in una frazione di secondo e rappresenta la svolta più importante nelle tecnologie ottiche per il telerilevamento degli ultimi anni. LiDAR è in grado di rilevare informazioni su un particolare oggetto anche molto distante grazie al rilevamento di come la luce riflette su di esso.
Il meccanismo è il seguente. I sensori LiDAR  emettono da 5.000 a 50.000 impulsi laser al secondo con scansione dell’array (ovvero dei dati in versione informatizzata).Queste informazioni sono determinate dall’ intervallo di tempo che separa gli impulsi. Registrando il tempo che trascorre tra un impulso e il successivo, è possibile per il software collegato derivare la distanza di un oggetto o di una superficie.
La fase di rilievo
Lidar scansiona dall’alto (spesso da un aereo) utilizzando un fascio laser che registra misure da 20 a 100.000 punti al secondo costruendo con i dati un modello ad alta risoluzione del terreno e delle sue caratteristiche.
LiDAR utilizza in lavorazione simultanea tre tecnologie, ovvero:
1)    Scanner laser per la scansione della zona di indagine;
2)    Inertial Measurement Unit per calibrare i dati in base all’asse di rollio del veicolo ( questo strumento stabilisce l’orientamento angolare del sensore LiDAR intorno all’asse x, y e z del velivolo che lo trasporta);
3)    E un GPS (Global Positioning System) che funziona simultaneamente con il sensore LiDAR per generare le coordinata x, y e z di ogni punto rilevato.
Nel Rilievo Lidar, i dati sono raccolti sui singoli punti della superficie del terreno, determinandone la spaziatura (un calcolo che tiene conto dell’altezza di volo e dell’angolo di scansione).
Vi sono diversi tipi di sondaggio LiDAR Survey, a seconda dello scopo del sondaggio stesso. Possiamo riconoscere tre categorie: batimetrica (per misurare la profondità acque – si usa con un aereo a bassa quota e usando il solo fascio laser), topografica (rilevano dati di elevazione del terreno utilizzando luci laser e con un uso attento del GPS al fine di localizzare punti sulla superficie terrestre ottenendo dati con una precisione di 15 cm) e idrografico (per la scansione delle acque costiere o del fondo marino: un impulso viaggia attraverso aria e acqua fino al fondo, mentre un altro impulso viene riflesso dalla superficie dell’acqua).
LiDAR è utilizzato in archeologia per avere rilievi in zone altamente dense di vegetazione o difficilmente accessibili, oppure per studi geologici e sismologici, per il monitoraggio dei ghiacciai, per misurare la velocità del vento atmosferico e per altre applicazioni nel settore forestale, oceanografico e militare, Ovviamente è ottimo per avere immagi 3D come DEM (Digital Elevation Model), TIN (Triangular Irregular Network), DTM (Digital Terrain Model), tutte utili per l’analisi del terreno.

 

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Il Qapaq Ñan vicino al riconoscimento UNESCO. Incontro in Argentina

Foto di Teresa Michieli

Tra il 3 e 5 giugno si é tenuto il IV Seminario Interregionale per la pianificazione e la gestione associato del Sistema Viario Andino, il Qhapaq Ñan, che ha riunito i rappresentanti di sette province dell’Argentina (Jujuy, Salta, Tucumán, Catamarca, La Rioja, San Juan e Mendoza), insieme con i coordinatori nazionali Qhapaq Ñan e i rappresentanti del Ministero del Turismo Argentino. L’incontro è stato organizzato dal Ministero della Cultura e dal Ministero della Presidenza del Turismo in coordinamento con il Ministero della Cultura della Provincia di San Juan.
Le stesse zone sono state visitate dal progetto Arkeomount nel 2011 e il nostro canale YouTube riporta video interviste all’archeologa Teresa Michieli proprio in queste zone. Si veda questo video e anche questo. Ora pare che ci si stia avvicinando al riconoscimento dell’intero cammino come Patrimonio UNESCO e, speriamo, anche al riconoscimento di altri siti archeologici vicini al cammino stesso, come il riparo di Los Morillos (vedi i ns video a questo link e anche a quest’altro indirizzo).
Nell’occasione i coordinatori nazionali del programma e la squadra della Provincia di San Juan sono stati trasferiti al Departamento de Iglesia per un incontro con i rappresentanti culturali della località a nord di questa regione andina. La conferenza ha visto tra i relatori la Coordinatrice Tecnica Nazionale del Programma Dr. Diana Rolandi, il Responsabile Nazionale di gestione delle Comunità Sig.ra Victoria Sosa, il Responsabile Nazionale di Conservazione, l’Arch. Mario Lazarovich, il Segretario alla Cultura della Provincia di San Juan, l’arch. Zulma Invernizzi, il Segretario del Turismo della Provincia di San Juan, la signora Claudia Gryszpan e la professoressa archeologa Dr. Caterina Teresa Michieli intervenuta per conto dell’Istituto di Ricerca Archeologica e Museo “Prof. Mariano Gambier “(FFHA UNSJ).
Durante la tre giorni il gruppo ha visitato i siti inclusi nella domanda di candidatura come patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO, incluse le strutture inca connesse all’allevamento delle vigogne nel suo habitat più australe conosciuto, all’interno del Parco Nazionale San Guillermo.

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Studiato il cervello dell’Homo Floresiensis- involuzione di Homo erectus?

 

Cranio dell'Homo Floresiensis - tratto da www.pikaia.eu

Indonesia, 2003. Una scoperta sulle isole della Sonda, a Liang Bua (isola di Flores), sconcerta gli scienziati. Ritrovati resti umani di una specie homo non definita. Inizialmente si pensa ad un Homo Sapiens malato, poi ad un nano, infine si propende per battezzare una nuova specie di Homo evoluta in Homo Floresiensis (dal nome dell’isola). Nove individui simili a Homo erectus nani ma con caratteri primitivi nel cranio e nei piedi da far supporre, nel 2010, che siano discendenti di una specie africana molto antica.
Ora, scienziati dell’Università di Tokyo (Daisuke Kubo, Reiko T. Kono e Yousuke Kaifu) firmano un articolo sul magazine della Royal Society perché i loro studi sul minuscolo cervello hanno portato ad alcune novità. Il cervello del piccolo homo dell’isola (alto appena 1 metro e 10 centimetri) è stato analizzato con un CT-scan che ne ha rivelato una dimensione di 426 cc., più grande di quanto pensato (400 cc) ma ben più piccolo di quello degli esseri umani moderni (1300 cc in media).
Secondo il parere del prof. Daisuko Kubo e dei suoi colleghi questa sarebbe la prova che Homo Floresiensis si sia evoluto dall’Homo erectus che, migrato su un’isola solitaria, è stato oggetto di quel fenomeno che si chiama “riduzione”, ovvero il nanismo che contraddistingue le specie animali che si isolano per lungo tempo in veri e proprio “colli di bottiglia” (come li definisce Luigi Luca Cavalli Sforza).
In precedenza si ipotizzava che questo Homo fosse disceso dal “piccolo” Homo habilis (individuato da circa 2 milioni di anni fa) o dal più grande Homo erectus (“nato” circa 1.700.000 anni fa). Tuttavia, vi è una mancanza di prove fossili per la presenza di Homo habilis in Asia, suggerendo una volta di più che la specie asiatica (estintasi solo 12mila anni fa!) si sia evoluta dall’Homo erectus.
Questa posizione era prima insostenibile in quanto si pensava che la dimensione media del cervello di Homo erectus dosse molto grande (circa 991cc), rendendo incredibile una tale riduzione. Ma la ricerca giapponese avrebbe provato che non solo la dimensione del cervello H.floresiensis é più grande di quanto si pensasse, ma anche che il primo Homo erectus aveva una dimensione del cervello di “solo” 860 cc.
Il team giapponese ha anche fatto studi su ben 20 diverse moderne popolazioni umane in tutto il mondo e ritiene di poter dimostrare che la relazione tra dimensione corporea e dimensione del cervello è in realtà più forte di quanto precedentemente suggerito. Un risultato che fornisce nuovi dati per la nostra comprensione dell’evoluzione umana suggerendo che le caratteristiche “umane” possono essere sostanzialmente più flessibili di quanto pensato.

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Messico: scoperte 5.000 pitture rupestri in una zona sfuggita al controllo degli spagnoli. Indizi che siano dei primi cacciatori-raccoglitori

 

Foto di: National Institute of History and Anthropology in Mexico

Giunge oggi la notizia dal Messico che ben 5.000 pitture rupestri sono state scoperte in una catena montuosa nel nord-est del Messico, vicino al confine con gli Stati Uniti.
Gli archeologi sono stati sorpresi dal ritrovamento soprattutto perché fino ad oggi non era mai stata registrata la presenza di gruppi precedenti alla colonizzazione spagnola così a nord.
Undici i siti interessati. I dipinti presentano prevalentemente i colori rosso, bianco e nero e si presume siano stati  realizzati dai primi cacciatori-raccoglitori. Tra le raffigurazioni, i primi report ci parlano di uomini impegnati in attività come la caccia, la pesca e la raccolta, e animali come cervi, lucertole e millepiedi.
Martha Garcia Sanchez dell’Università Autonoma di Zacatecas ha detto che è una scoperta importante in quanto ora siamo in grado di documentare la presenza di gruppi pre-ispaniche a Burgos, in una regione dove fino a poco fa si sosteneva che non fosse mai stata abitata.”Questi gruppi sono sfuggiti al controllo spagnolo per quasi 200 anni”, ha detto Garcia Sanchez. “SI sono rifugiati nella catena montuosa di San Carlos dove avevano acqua, piante e animali da mangiare. Gli spagnoli non si sono mai spinti in queste montagne né tra le loro valli”.
Una sola grotta pare stupefacente con ben 1.500 dipinti e l’immagine di un atlatl, un’arma ispanica usata per la caccia e inedita nei dipinti della regione Tamaulipas. L’arma è stata sviluppata nel Paleolitico superiore, circa 20.000 anni fa e questo dà un primo indizio per una datazione. Ora si attende che il team possa prelevare campioni di pigmenti per determinare l’ effettiva età attribuibile ai dipinti.

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Trovato abitato mesolitico a Stonehenge: insediamenti umani 5.000 anni prima di quanto si pensasse

 

Stonehenge

Qualche giorno fa la BBC (http://www.bbc.co.uk/news/uk-england-wiltshire-22183130) ha riportato un’interessante notizia su Stonehenge, che replichiamo per il nostro blog in quanto non solo ricalca i luoghi da noi visitati nel progetto London 2012, ma è frutto di un approccio differente. Vediamo prima la notizia.
Nuove prove archeologiche da Amesbury (Wiltshire) rivelano tracce di insediamenti umani del 7.500 a.C., ovvero ben 5.000 anni prima che il primo monumento di Stonehenge venisse eretto. Lo scavo è stato effettuato a circa un miglio dall’odierno circolo in pietra e
Il dottor Josh Pollard, della Southampton University, crede che il team abbia individuato la comunità che per prima si insediò in zona, dando vita anche al monumento poi divenuto quello che tutti conosciamo.
Ci interessa sottolineare come si sia giunti allo scavo. Il team era guidato dall’archeologo David Jacques (Open University), che ha finanziato in parte lo scavo. Lo studio è iniziato grazie a delle fotografie aeree che lo stesso Jacques acquisì in un archivio presso la Cambridge University quando ancora era studente. SI accorse che la zona era ricca di materiale archeologico ma stranamente, pur essendo a ridosso di Stonehenge, mai studiata! Il sito è noto come Campo di Vespasiano:  “L’intero paesaggio è ricco di monumenti preistorici ed è straordinario che questo sito sia in un certo senso un punto cieco per l’archeologia” ha detto i cronisti della BBC. “Ho iniziato a sorvegliare il sito nel 1999 insieme ad un gruppo di studenti e amici “. Ciò che aveva suggerito l’importanza del sito al giovane studente Jacques, è che vi è una sorgente di acqua naturale, forse la vera fonte di acqua per approvvigionare Stonehenge. Ed ecco il punto del racconto che ci interessa di più. Jacques riporta che quello che ha fatto con il suo team è stato dare attenzione ai luoghi naturali, usando l’immaginazione. Il paesaggio ha dato all’archeologo il suggerimento: “Il mio pensiero era focalizzato sul capire dove potessero stare gli animali selvatici. Lì dovevano vivere anche gli uomini, organizzati in gruppi di cacciatori raccoglitori”
E aveva ragione. Nel corso degli ultimi sette anni, il sito ha prodotto il più antico insediamento semipermanente nella zona di Stonehenge da 7.500 a 4.700 a.C.
Le datazioni al carbonio dei materiali rinvenuti nel sito mostrano che uomini lo abitavano ogni millennio e mezzo: ” siamo in un piccolo angolo in fondo a una collina, con un fiume che scorre intorno ad esso e probabilmente era molto vissuto nel mesolitico”.
Ora, quello che p uno scavo iniziato con fondi limitati potrebbe diventare uno dei più importanti siti mesolitici europei, come sostiene il Professor Peter Rowley-Conwy, della Durham University. E il dottor Pollard, del Progetto Stonehenge Riverside, ha sottolineato come ” è stato significativo aver dimostrato che non vi erano ripetute visite a questa zona dal 9° al 5 ° millennio a.C.” per aggiungere poi “ho il sospetto che Jacques ha appena colpito la punta di un iceberg in termini di attività Mesolitico sull’Avon”.
Archeologia dei luoghi naturali. Ancora un punto per l’approccio inglese. Chapeaux.

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Creta: intervista alla Dott.ssa Simona Todaro. Studi, ricerche e prospettive sull’isola.

Per gentile concessione della dott.ssa Todaro

Avevamo annunciato nel nostro post del 18 marzo che avremmo raggiunto la dott.ssa Simona Todaro, che in quei giorni aveva presentato le sue ultime ricerche nel corso di una conferenza stampa della Scuola Archeologica Italiana di Atene. In quell’occasione la studiosa italiana aveva presentato le sue ricerche sugli scavi delle città di Festo e Aghia Triada a Creta. Pubblichiamo l’intervista che la dott.ssa Todaro ha rilasciato alla redazione di Arkeomount.com nei giorni successivi la conferenza

Arkeomount(A): Dott.ssa Todaro, Venerdì 15 marzo ad Atene presso i locali dell’Archaeological Greek Service (Archaeologiki Aiteria) ha presentato in una conferenza pubblica dal titolo “Festos e Agia Triada nel periodo Prepalaziale: la dimensione domestica, rituale e funeraria” i risultati delle ultime ricerche da lei condotte nella pianura di Messara, a Creta. Ringraziandola di aver accettato al nostro invito di un’intervista per Arkeomount, Le chiediamo di descriverci brevemente il Suo percorso e i suoi studi, precisando alcuni dati che la news dell’ANSA riportavano in maniera errata
Dott. Simona Todaro (ST): Mi sono laureata a Ct, con il prof. Vincenzo La Rosa, con una tesi su materiali Prepalaziali inediti scavati dallo stesso La Rosa nel centro di Haghia Triada, e ho portato a termine lo studio dei depositi  dell’Antica Età del Bronzo provenienti da questo sito mentre compivo la specializzazione presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, diretta dal Prof. E. Greco. L’esperienza ateniese è stata poi seguita da un periodo di studio in Inghilterra, presso l’Università di Sheffield, dove ho svolto un dottorato di ricerca su Festòs nel periodo Prepalaziale. Il mio peregrinare ha subito una parziale battuta d’arresto nel 2008, quando sono diventata ricercatrice a tempo indeterminato presso l’Università degli Studi di Catania, dove insegno preistoria e protostoria.

A: Bene, venendo alla campagna di scavo di cui ha riferito in conferenza, in quali zone avete concentrato i vostri sforzi e quali sono le principali evidenze archeologiche che sono emerse da questa campagna?
ST: La conferenza in realtà presentava i risultati delle mie ricerche condotte sul periodo Prepalaziale nella Creta Meridionale partendo dai risultati degli scavi condotti da Vincenzo La Rosa ma prendendo in considerazione anche i dati degli scavi precedenti, condotti da Luigi Pernier e Doro Levi. In particolare, ho cercato di illustrare le dinamiche che hanno portato al progressivo affermarsi di Festòs nella pianura della Messarà, prima come centro cerimoniale comunitario di tipo regionale e poi come central place che controllava la regione, quindi come centro di potere politico.
La revisione della storia insediativa di Haghia Triada e Festòs e della pianura della Messarà in generale nel periodo che ha preceduto la costruzione del primo palazzo a Festòs è stata possibile grazie ai risultati degli scavi condotti tra il 2000 ed il 2004 da V. la Rosa a Festòs, nel versante occidentale della cosiddetta collina del palazzo, che è la più bassa e la più orientale delle tre colline del comprensorio festio. Questi scavi hanno infatti portato alla luce sequenze stratigrafiche continue che hanno consentito di ridefinire la griglia di cronologia relativa del periodo Prepalaziale, periodo compreso tra la metà del IV e l’inizio del II millennio a.C. Grazie a questa revisione, è stato possibile datare le evidenze archeologiche della regione e quindi ricostruire le dinamiche, se non proprio le cause, che intorno agli inizi del II millennio a.C. hanno portato alla costruzione di un palazzo di tipo minoico, oggi meglio noto come “court-centred building”, cioè edificio a cortile centrale.

A:Su Arkeomount.com cerchiamo di essere attenti alla metodologia di scavo intrapresa, soprattutto in relazione all’ambiente nel quale ci si muove. Potrebbe brevemente descrivere ai nostri lettori quali siano le principali caratteristiche delle aree di scavo nella pianura di Messara di Creta e quali le tecniche utilizzate per operare nell’area? Quali le problematiche che il clima o l’ambiente in genere di questa zona di Creta pongono agli archeologi? quali attenzioni o “segreti” dovete adottare per essere efficaci?
ST: Scavare in terra straniera, nella fattispecie in Grecia, implica innanzitutto rimanere all’interno di aree di scavo ristrette, per lo più già ampiamente scavate e caratterizzare da complessi palinsesti pluristratificati.  Uno scavo estensivo, per quanto auspicabile in linea teorica, si scontra con la necessità di acquistare il terreno e quindi con la sostanziale mancanza di fondi. Il periodo Prepalaziale, inoltre, pone dei problemi specifici connessi alla presenza di strutture monumentali di periodo successivo che nel caso di Festòs si concretizzano in due palazzi monumentali e varie strutture di periodo geometrico ed Ellenistico. Ciò imporne di procedere per piccoli saggi, al di sotto dei pavimenti delle strutture più tardi, e di provvedere dopo alla correlazione dei risultati ottenuti in ciascuno di essi. Quanto al clima, il problema fondamentale è il caldo umido dei mesi di Luglio e Agosto, i periodi prescelti per gli scavi

A: Sempre sul lato tecnico: qual è stata la vastità dell’area scavata, quante le persone coinvolte e per quanto tempo?
ST: Le ultime campagne di scavo, che sono anche state le più proficue per la conoscenza del periodo Prepalaziale, si sono concentrate sul versante occidentale della collina del palazzo e nell’area del piazzale occidentale del palazzo stesso. La presenza di strutture più tarde ha imposto una procedura per piccoli saggi in profondità, che è stato poi necessario confrontare tra loro per avere un quadro più chiaro della stratigrafia. Ogni piccolo saggio è eseguito da un archeologo con l’aiuto di un operaio specializzato e in presenza di alcuni studenti. La collaborazione degli studenti nelle fasi dello scavo è spesso molto ridotta, perché le operazioni di scavo si concentrano in tre settimane e quindi si ha la necessità di procedere con notevole celerità.  Nel 2011 e 2012, tuttavia, allo scavo hanno partecipato 10 studenti del corso di laurea magistrale in Archeologia, opzione internazionale.

A:La pianura di Messara è dal 1900 un luogo caro all’archeologia italiana grazie al fondamentale e pionieristico lavoro di Federico Halbherr, inviato a Creta da Domenico Comparetti sul finire dell’800. L’Italia si aggiudicò gli scavi a Festos mentre gli inglesi si accaparrarono quelli di Cnosso. Molta strada è stata fatta e da allora: prima la Missione Archeologica Italiana di Creta, poi la nascita nel 1909. Diretta da Pernier, Della Seta, Levi, Di Vita e dal 2000 da E. Greco. Quali i principali temi di ricerca che verosimilmente saranno la guida dei prossimi scavi? Ha qualche anticipazione per noi (come ad esempio se e quando è prevista la prossima campagna di scavi?)
ST: Negli ultimi 15 anni la nostra attenzione è stata rivolta a chiarire due punti della preistoria dei siti di Festòs e Haghia Triada: il periodo precedente la costruzione del Primo palazzo, quindi il periodo compreso tra la metà del IV e l’inizio del II millennio a.C., e il periodo compreso tra la distruzione del primo palazzo e costruzione del secondo, che in termini di cronologia assoluta si colloca all’incirca tra 1750 a.C. e il 1650 a.C. Per il momento siamo impegnati nella pubblicazione dei risultati degli ultimi anni: si faranno pertanto piccoli saggi di verifica, ma le nostre energie saranno concentrate sullo studio e pubblicazione dei materiali degli scavi passati.

A:  un suo breve commento sullo stato attuale degli scavi dell’età Minoica. Cosa sappiamo di nuovo che dieci anni fa non sapevamo ?
ST: Negli ultimi 15 anni l’Archeologia Minoica ha subito un processo di revisione dovuto sia alla scoperta di nuovi siti, sia al proseguimento degli scavi in siti conosciuti da secoli, sia e soprattutto al riesame della documentazione disponibile  sulla base di nuovi approcci metodologici e di nuovi modelli interpretativi. In particolare, la ricostruzione della società minoica nelle varie fasi della preistoria dell’isola è sempre rimasta al centro degli interessi degli studiosi, ma con un punto di vista post-processuale o contestuale che da la priorità alle social practices cioè alle azioni socialmente condivise dalle comunità, al concetto di “performance” e alle social arenas (luoghi deputati alla “contrattazione” delle identità sociali). Questo processo di revisione è testimoniato da una serie di studi monografici e congressi internazionali in cui di parla di re-thinking o ricorre la parola re-visisted a partire da “Labyrinth revisisted: Rethinking Minoan Archaeology (a cura di Y. Hamilakis, Oxford 2002) per finire con “Back to the beginning: Reassessing Social and Political Complexity on Crete During the Early and Middle Bronze Age (a cura di J. Driessen, I. Schoep, P. Tomkins, Oxford 2012). Le novità più significative riguardano i Palazzi Minoici, di cui si sono messe in evidenze le macroscopiche differenze rispetto a quelli della Grecia continentale di periodo successivo (cittadelle micenee), cercando soprattutto di non vedere il fenomeno palaziale in maniera monolitica, ma distinguendo una prima fase, in cui l’aspetto cerimoniale era sicuramente prevalente rispetto ad altre funzioni, da una seconda fase in cui l’aspetto economico-politico diventa più evidente, ed una terza fase, quella Micenea, il cui i palazzi diventano l’espressione architettonica di una società gerarchica e verticistica, retta da un wanaka, che sarebbe l’anax, il re dei testi omerici.

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A Londra gli archeologi annunciano di aver trovato la “Pompei del nord”!

Sponde del Tamigi

Continuano le notizie da Londra, dove le movimentazioni infinite della (ormai) megalopoli inglese ci sta abituando anche dopo il periodo olimpico a ritrovamenti inevitabili nel sottosuolo. Poche ore fa il website del DailyMirror riporta di come gli archeologi abbiano portato alla luce migliaia di antichi reperti romani in uno scavo vicino a Queen Victoria Street (un tempo sulle rive del fiume Walbrook, dove nel 1950 fu portato alla luce un tempio di Mitra che – proprio per questi lavori – non è visitabile da un paio di anni).
I ritrovamenti a pochi metri dalle sponde del fiume Tamigi: monete, ceramiche, scarpe, portafortuna e un amuleto ambrato. Tutti i reperti datati al 40 d.C., grazie alle strutture di legno recuperate a circa 12 metri di profondità. L’eccezionale stato di conservazione ha fatto gridare gli archeologi al successo, al punto da far  soprannominare il sito come “la Pompei del Nord”.
Sadie Watson, il direttore del sito del Museo di Archeologia di Londra, ha dichiarato: “Certamente l’archeologia su questo progetto finora è probabilmente lo scavo più importante mai realizzata all’interno di Londra, almeno per la Londra romana. I manufatti recuperati rappresentano tutto il periodo romano di questa zona e offrono uno scorcio senza precedenti della vita del vivace centro di Londinium romana”.
Rinvenute anche oltre 100 frammenti di tavolette con scrittura romana, 700 scatole di frammenti di ceramica e la maggior quantità di cuoio romano mai portato alla luce nella capitale, tra cui centinaia di scarpe. Sophie Jackson, dal museo di Londra: “Il sito è una meravigliosa fetta attraverso i primi quattro secoli di vita di Londra. Le condizioni acquitrinosi lasciate dal torrente Walbrook ci hanno restituito strati su strati di edifici in legno romani, recinzioni e cortili, tutti ben conservati e che contengono incredibili oggetti personali, vestiti e persino documenti che trasformeranno la nostra comprensione del popolo romano di Londra. “

News del Daily Mirror: http://www.mirror.co.uk/news/uk-news/archaeologists-uncover-pompeii-north-during-1820729

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I Monti Lessini hanno restituito il primo ibrido Sapiens-Neanderthal?

Immagine tratta da johnhawks.net

Questa mattina il corriere.it ha pubblicato un articolo a firma di Elisabetta Curzel (vedi link) le cui implicazioni,se verificate, sarebbero sensazionali.
I resti umani di un individuo ritrovati nel 1957 presso il Riparo Mezzena, località in provincia di Verona, sui Monti Lessini, risalenti a circa 34.5000 anni fa, potrebbero essere i primi al mondo che testimoniano la nascita di un ibrido tra Homo Sapiens e Neanderthal. Nello specifico è la mandibola dell’individuo ad essere sotto esame: sottoposta a test del DNA insieme ad altri frammenti cranici ritrovati nello stesso livello stratigrafico, ha permesso l’identificazione genetica dell’unico Neanderthal italiano del periodo tardo.
Analisi comparative di affinità tassonomica, morfologica e morfometrica sulla mandibola suggeriscono un possibile intreccio con il Sapiens.
Stiamo cercando di mettersi in contatto con i protagonisti della ricerca per avere maggiori dettagli.

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Uno scavo in Melanesia potrebbe comprovare abilità di navigazione in mare aperto oltre 3.500 anni fa. Arrivarono fino in Sud America?

 

Mappa della zona tratta da remax.net

Si sta concludendo una seconda fase di scavo archeologico sulle isole Marianne, in Micronesia che segnaliamo per le sue potenzialità di ricerca. Un team di archeologi australiani ha recuperato prove di insediamento umano (incluse sepolture) nelle Isole Marianne Settentrionali presso il sito di “The House of Targa” sull’isola di Tinian (una delle principali della zona).
Le evidenze raccolte (pali di legno per abitazioni, un focolare da cucina, vasellame e altri manufatti) proverebbero che la più antica traccia umana sull’isola risale a 3.400 anni fa.
Il professor Peter Bellwood, docente di Archeologia presso la Scuola di Archeologia e Antropologia della Australian National University (ANU), ha recentemente rilasciato un’intervista (link) nella quale sostiene l’importanza dello scavo in quanto il sito è stato uno dei primi luoghi colonizzato da popolazioni umane in Micronesia, mentre più a sud – forse contemporaneamente, i Polinesiani prendevano possesso di nuove terre.
Vivevano in palafitte, producevano ottima ceramica rossa di tipo Lapita (comune a quella del trovata nel Pacifico occidentale, a sud dell’equatore e nelle isole a est della Nuova Guinea). Questo scavo, dunque, sarebbe parte di una migrazione che avrebbe poi raggiunto la Nuova Zelanda, l’Isola di Pasqua e infine le Hawaii.
Si sa che il Sapiens arrivò in Australia, Nuova Guinea e sulle Isle Salomone già 40-50.000 anni fa, ma queste popolazioni delle Marianne sarebbero state le prima a giungervi con le loro canoe 3.500 anni fa, dimostrando una certa tecnologia. Non é chiaro se siano passati o meno dalle isole più meridionali (come Palau o Yapp), dove gli scavi per ora hanno dimostrato una presenza stabile solo 200 anni dopo.

Questo scavo in definitiva è il primo sguardo sulla seconda grande migrazione dell’area (dopo quella che raggiunse la Nuova Guinea) e potrebbe consentirci di conoscere qualcosa di più di quei micronesiani, polinesiani e figiani sparsi più a est e che probabilmente – sostiene ammette il prof. Bellwood – potrebbero aver raggiunto le coste del Sud America. Una questione, quest’ultima, che come sapete seguiamo con attenzione ad Arkeomount, e che cercheremo sempre di approfondire.

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