Erano regnanti mancati i corpi mutilati delle paludi irlandesi?

Foto tratta da www.rte.ie

Corpo di Portaloise-Co. Laois (RTE News)

La mano dell'uomo di Old Croghan - http://irisharchaeology.ie

L'uomo di Clonycavan - http://irisharchaeology.ie

 

 

 

 

 

 

 

Il Regno Unito ha molti spunti per la ricerca archeologica in ambienti anomali. A Londra ci è venuto spontaneo ricordare la nostra visita all’archeologia Irlandese del 2010 e proprio pochi mesi fa una news ha rinnovato il nostro interesse.

Nel 2011 è stato trovato un nuovo corpo mummificato in Irlanda. A sud est di Dublino, vicino alla città di Portaloise – nella palude di Cul na Móna – è emerso il corpo di una donna che probabilmente risale a tremila anni fa. Ben più antica dei due famosissimi corpi dell’uomo di Old Croghan e di quello di Clonycavan, entrambi esposti al Museo Nazionale Irlandese di Dublino, le cui datazioni risalgono al quarto secolo prima di Cristo.  La datazione della nuova mummia delle paludi è ancora incerta e una conferma del primo millennio prima di Cristo la renderebbe molto interessante.
Anche il corpo di Portaloise (Co.Laois) è giunta a noi in un incredibile stato di conservazione grazie ad un ambiente privo di ossigeno, un terreno acido e freddo che ha impedito il decadimento di pelle, capelli e unghie. Alcuni particolari sono emozionanti, come le unghie delle mani praticamente intatti.
Tutti i corpi ritrovati nelle paludi mostrano segni di omicidio, studiati con tecniche di antropologia forense. Non fa eccezione il nuovo corpo, come conferma Ned Kelly, capo del dipartimento delle antichità del Dublin National Museum, che ne ha seguito il recupero nel 2011. Era dunque un ennesimo sacrificio umano.
Ma perché?
La teoria più recente e a nostro avviso interessante è fornita dalle ricerche dello stesso Ned Kelly in un articolo pubblicato nel giugno del 2010 su Archaeology. Nella sua interpretazione queste persone sono regnanti mancati e furono uccisi per marcare confini tribali. Gli uomini di Old Cronaghan e Clonycavan hanno entrambi i capezzoli recisi per impedire loro di regnare. Infatti, nell’antichità irlandese succhiare il capezzolo di un regnante era segno di sottomissione. Recidere i capezzoli intendeva impedirne la possibilità a regnare e l’offerta del corpo alla Dea della Terra era un restituire alla stessa Dea, moglie sacra del Re, il corpo del suo (mancato) sposo. Kelly nota anche che le molteplici ferite sui corpi lasciano intendere che la Dea non fosse solo connessa alla fertilità, ma anche alla guerra e alla morta. Una Dea del Mondo Infero ci viene da dire. Siamo ancora in attesa di sapere se il corpo di Portaloise riporti o meno identiche ferite.

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Gli Assiri attraversavano l’Eufrate da sommozzatori?

Camminando nell’area dedicata agli antichi Assiri al British Museum ci si imbatte in un rilievo molto interessante per i ricercatori contemporanei. Come mostra l’immagine allegata al post  (abbiamo preferito inserire questa immagine trovata online sul sito mylifemagazine.com ) sono ritratti due guerrieri assiri impegnati a nuotare, presumibilmente nel fiume Eufrate, con uno strano “strumento”. L’interpretazione che va per la maggiore sostiene che si tratti di sacche di pelle animale con un tubo, in legno o canna, al quale le bocche dei nuotatori si approcciano. Negli anni molte le proposte per il riconoscimento di questi “aggeggi”, tra le quali la possibilità che si tratti di antesignani di autorespiratori, ovvero strumenti per operazioni subacquee in grado di non rilasciare bolle di ossigeno in superficie. I si troverebbe dunque davanti ai primi sommozzatori 007 della storia!
Tuttavia, alcune ricerche di archeologia sperimentale ci danno una nuova ipotesi, altrettanto suggestiva. I rilievi, risalenti circa al 1000 a.C., riprenderebbero guerrieri con armatura e armi pesanti (diciamo almeno un’arma pesante a testa) che nuotano a livello dell’acqua per raggiungere la sponda opposta del grande fiume nonostante il loro peso. Gli strumenti sarebbero sacche ottenute da una sola pelle intera di animale il cui “respiratore” in legno o canna era legato alla pelle stessa grazie a un composto di miele e cera d’api, in grado di rispondere ai requisiti di impermeabilizzazione necessari. La bocchetta di respirazione serve dunque a mantenere l’equilibrio durante la traversata e a gonfiare il galleggiante che, posto sotto la pancia, consente appunto di nuotare nonostante si indossassero armature pesanti.
Le ricerche sperimentali cui accennavamo hanno provato a mettere in pratica la sacca assira grazie a sommozzatori militari inglesi. La sacca di pelle non garantisce il ricambio di aria necessario e di fatto non è possibile immergersi con essa, perché si riempie di aria e galleggia. Appunto, galleggia! Ecco dunque la sua destinazione d’uso.
Sul tema delle tecniche di immersione nei tempi passati segnaliamo un breve saggio di Rob Hoole a questo indirizzo web. Il British Museum, invece, è semplicemente strapiena di piccole e grandi indicazioni archeologiche e antropologiche!

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Nuove evidenze dal mesolitico britannico: erano davvero nomadi?

Mentre ci troviamo a Londra, il quotidiano “The Guardian” ha pubblicato lo scorso mese la notizia di alcuni scavi in corso presso Lunt Meadows, vicino Sefton, nella regione inglese del Merseyside a due passi da Liverpool. Gli archeologi hanno recuperato selci e legname carbonizzato databili al periodo Mesolitico – circa 8.000 anni fa – le cui popolazioni erano pensate solo nomadi. Le nuove evidenze sono interpretabili come testimonianze di residenza permanente.
L’archeologo Ron Cowell, curatore della sezione di archeologia preistorica del museo di Liverpool ha dichiarato al giornale britannico che “sembra abbiamo trovato i resti di tre abitazioni o strutture di dimensioni notevoli, la cui larghezza raggiungeva i sei metri. Questi ritrovamenti collimano con recenti evidenze che sfidano la visione tradizionale che vedeva le popolazioni dell’epoca in continuo movimento. Il sito in cui stiamo scavando suggerisce che avessero strutture permanenti alle quali quanto meno tornavano ripetutamente per soggiornarvi in alcuni momenti dell’anno”.
Gli strumenti in selce sono un indicazione importante in quanto molta pietra di questo tipo è stata ritrovata in sito e non è pietra locale. La selce in questione proveniva dall’altra parte dell’estuario, ovvero da quello che oggi è territorio nord gallese.
Altro dato interessante è il ritrovamento di pratiche rituali connesse alla rottura volontaria di strumenti in pietra che poi venivano sepolti nel terreno in apposite buche. Questo atteggiamento, aggiungiamo noi, è ben noto nel periodo Neolitico, diverse migliaia di anni dopo, in tutta la Gran Bretagna. Una delle possibili interpretazioni é la volontà di marcare con strumenti di valore, zone geografiche ritenute altrettanto importanti, per ottenere una sorta di sacralizzazione del terreno o meglio, di riconoscimento verso il luogo, ritenuto sacro per diverse ragioni.
Lunt Meadow è molto vicino alla spiaggia di Formby già famosa per il ritrovamento di antiche tracce umane e orme di animali preistorici, preservate dal fango fossilizzato.
Una conferma del ritrovamento vedrebbe il sito di Liverpool anticipare di migliaia di anni quello che era ritenuto il più antico insediamento britannico, ovvero Scara Brae sulle Orcadi scozzesi.
Il sito si trova sotto diversi strati che mostrano decine di allagamenti (innalzamenti costieri) si sono verificati nei millenni successivi. Ancora una volta un sito costiero, ancora una volta una storia da riscrivere.

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Le terracotta più antiche? 16.500 anni fa, in Giappone

 

Jomon - vaso a torcia esposto al British Museum

Tecniche di incisione a corda

Studi sui vasi Jomon

 

Il British Museum di Londra sta ospitando una piccola ma significativa mostra di reperti archeologici della cultura giapponese Jomon. Con questo termine si indica una vasta fase della storia nipponica, che ha interessato la zona centrale dell’isola pacifica dal 12.500 fino al 1.000 a.C. Le ricerche in siti Jomon (letteralmente “marcati con le corde”) hanno rivelato alcuni impressionanti reperti, tra i quali vasi in terracotta di incredibile raffinatezza. Questi vasi erano cotti in forni che potevano raggiungere anche i 900°C ed erano modellati a mano per essere rifiniti con un uso sapiente di legno e corde, il cui passaggio “a rullo” consentiva di ottenere i fini incavi che possiamo ancora oggi ammirare.Quello che però è maggiormente interessante di questi ritrovamenti è la datazione. Le più antiche terracotta giapponesi sono datate al 14,500 a.C.! Diverse migliaia di anni prima delle terracotta del Vicino Oriente o del Nord Africa. Due fantastici pezzi sono esposti nella piccola sala alla destra dell’ingresso principale del famoso Museo londinese. Lo studio di questi vasi ha permesso di recuperare resti di cibo carbonizzato. Erano dunque torce o vasi? Probabilmente entrambi e forse erano fissate nel terreno grazie alla loro forma “a cono” che ne consentiva un facile ancoraggio a terra. I fini disegni che ne ricoprono le superfici esterne sono ancora da decifrare completamente: da spirali a S, a fiamme, a “dragoni” e forse ad onde. Alcuni archeologi sostengono che gli tsunami del Pacifico abbiano colpito diverse volte le popolazioni Jomon della costa.Lo scorso anno, nel nostro reportage dal Perù, abbiamo ricordato come la cultura Jomon abbia molte similitudini con quella Ecuadoreña di Valdivia. Dal 4.500 a.C. compaiono in Sud America le prime terracotta. Gli abili artigiani/artisti erano giapponesi? Vista la grande devozione per il mare che gli Jomon dimostrano in alcune loro lavorazioni non ci stupirebbe scoprirli abili navigatori. Aggiungiamo come, sempre a nostro parere, le volute simili a onde riportate sulla parte inferiore dei vasi Jomon esposti (appartenenti ad una vasta collezione i cui esponenti più magnifici sono alti anche 1,5 metri) ricordano l’ossessione per le onde che sono incise lungo la città sacra dei Moche a Chan Chan (vicino l’odierna città peruviana di Trujllo). Anche quella civiltà temeva, riveriva e controllava i capricci del mare, del Niño e degli tsunami..

Per approfondire Chan Chan vedi nostri post di dicembre 2011.

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Nel deserto iracheno alla ricerca di Ninive – Intervista al Prof. Bonacossi

Ninive, ricostruzione. Tratta dal sito www.silab.it

Divenne capitale del regno assiro nel 704 a.C. ma probabilmente era vissuta dal IV millennio a.C. Parliamo della città di  Ninive, sulle sponde del fiume Tigri e oggi posta entro i confini dell’Iraq (nei suoi pressi sorge la città di Mossul). Si conoscevano i resti delle sue imponenti mura (ben 12 chilometri) e il suo grande tempio dedicato a  Ishtar. Sargon II elesse la città a capitale del suo regno. Distrutta dai Babilonesi nel VII secolo è ora al centro di un progetto di recupero e la missione archeologica è coordinata dall’Università di Udine. Corriere.it ha pubblicato ieri un interessante articolo che riporta come questa prima campagna abbia portato al ritrovamento di ben cinque acquedotti costruiti tra l’VIII e il VII secolo a. C., e di ben 239 nuovi siti archeologici, inclusi bassorilievi rupestri del VII secolo a. C. e una grandiosa necropoli.
Il direttore della missione nel Kurdistan iraqeno, il prof. Daniele Morandi Bonacossi (Università di Udine), ha una vasta esperienza in steppe semiaride (Siria e Iraq) e in deserti di pietre (come Palmira). Arkeomount lo ha raggiunto via e-mail per avere da lui alcuni particolari inerenti la metodologia impiegata in Iraq e gli accorgimenti richiesti in ambiente semiarido.
Arkeomount (ARK): “Abbiamo letto delle alte temperature dell’area di ricerca. Ci chiediamo anche se il terreno sia stato un problema?”
Daniele Morandi Bonacossi (DMB): “No, il terreno non è un problema, faceva solo molto caldo e le temperature raggiungevano anche i 58-60 gradi al sole (50 allombra) per cui utilizzavamo le prime ore del giorno, con la sveglia alle 4,30”.

ARK: “Avete utilizzato tecnologia di rilevamento, come i georadar?”
DMB: “No, nelle ricognizioni di superficie regionali non si usano metodi di prospezione geofisica, che vengono normalmente utilizzati nell’indagine dei singoli siti. In futuro utilizzeremo georadar e geomagnetica nella prospezione dell’acquedotto assiro di Jerwan”.

ARK: “A così alte temperature si devono usare particolari accorgimenti per la conservazione dei manufatti usati? quali?”
DMB: “Gli unici accorgimenti che si devono utilizzare nel restauro dei materiali archeologici consistono nell’utilizzare collanti che resistano a temperature elevate. Quindi, niente colla comune ma solo collanti a base di primal”.

Ringraziamo il Prof. Bonacossi per la disponibilità e speriamo di poter dare ai nostri lettori altre novità del Progetto archeologico regionale Terra di Ninive, che l’Università di Udine seguirà grazie a una licenza di scavo decennale affidatagli dal governo centrale di Bagdad e quello dalla regione autonoma del Kurdistan. In futuro l’UNESCO vorrebbe realizzarvi un grande parco archeologico-ambientale.

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La Stele di Rosetta? Da uno scavo nel deserto of course…

British Museum_1

British Museum 2

La Stele di Rosetta

Uno dei pezzi più pregiati della collezione del British Museum è un simbolo della disciplina archeologica che ognuno di noi ha incontrato nelle prime pagine dei libri di storia, fin dalle scuole elementari: la Stele di Rosetta.

Dal 3500 a.C e fino al 400 d.C era in uso in Egitto la scrittura geroglifica, ma non era l’unica. Il geroglifico era principalmente usato per testi sacri (iscrizioni tombali, ad esempio), ma per gli affari di tutti i giorni si usava la lingua domotica o, più tardi, il greco.

I geroglifici sono stati interpretati nel 1822 dal famoso Champollion proprio grazie alla Stele di Rosetta che riporta uno stesso testo scritto in geroglifico, in demotico, nato dalla scrittura ieratica, e in greco. Il testo è parte di un decreto Tolemaico del 196 a.C. in onore del faraone Tolomeo V Epifane.

Il ritrovamento della stele non fu proprio uno scavo archeologico, quanto uno dei tanti atti di appropriazione dell’esercito Napoleonico, che nel 1799 arrivarono nel Delta del Nilo e saccheggiarono il villaggio di Rashid (Rosetta). La pietra (oltre 700 kg di basalto, alta 114 cm e larga 72 cm) si trovava lì dal quindicesimo secolo dC, incastonata nelle mura di una fortezza. Infatti, l’avvento del Cristianesimo aveva visto l’abbattimento di molti templi egizi e le sue pietre riutilizzate in nuove costruzioni. Così fu per la stele, acquisita dall’ Inghilterra nel 1801 grazie al Trattato di Alessandria. L’anno successivo era già al British Museum che ne spedì copie a studiosi di tutto il mondo. E Champollion capì che il geroglifico era composto da immagini di suoni che, sommate, davano un ultimo segno, in rappresentanza della parola rappresentata.

La teca che la conserva è in una delle sale più visitate del British Museum e di fatto introduce alla ricca parte egizia, seguita poi da quella assira. Da vedere!

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Arkeomount a Londra

British Museum

Non aggiorniamo da qualche settimana il blog per un semplice motivo: ci siamo spostati a Londra! Perché? Perché qui si trovano molte scuole di archeologia, molti musei con esposti fondamentali reperti provenienti da scavi effettuati in zone di difficile accesso e certo non mancano i siti neolitici e megalitici.

Qui a Londra buona parte della disciplina archeologica ha preso il via, grazie a personaggi come William Flinders Petrie, cresciuto a Londra, famoso per aver scavato in Egitto e Palestina (morto a Gerusalemme, infatti, nel 1942), ma soprattutto per i suoi studi a Stonehenge, sul finire del secolo scorso. Certo sempre a Londra si sono avuti alcuni momenti “bui” della disciplina, come il famoso scandalo dell’uomo di Piltdown che alcuni esponenti del British Museum avevano etichettato come prova che il primo ominide, nostro progenitore, abitasse sul suolo britannico. Tutto smontato ovviamente. E infine, per citare un altro personaggio storico della disciplina, proprio mentre arrivavamo è morto 91enne Donald Wiseman, assirologo e famoso per aver cercato di collegare reperti e scavi alla storia narrata nell’Antico Testamento. Ovviamente anche lui parte del British Museum. Forse qualcuno si ricorda anche che era amico e collaboratore di Agatha Christie, sposata al suo amico e collega Max Mallowan.

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Culto dell’acqua tra i Lambayeque: una nuova sepoltura nel deserto peruviano ne conferma l’importanza

Chotuna, area di scavo - foto dunyanews.com

La scorsa settimana i giornali internazionali hanno potuto svelare i particolari di una tomba pre-Inca scavata dagli archeologi in Perù. Carlos Wester La Torre, direttore degli scavi e direttore del Museo Archeologico nazionale Brüning, nelle regione di Lambayeque in Perù aveva già individuato in una tomba appartenente alla cultura Sican (800-1375) nella quale giacciono i resti di una sacerdotessa sepolta con 8 “accompagnatori”. La regione fu abitata dai Sican dal 1300 circa (periodo al quale dovrebbe risalire anche la sepoltura) e la sepoltura, indagata anche nella campagna di scavi 2012, ha restituito anche il corpo di altri 4 individui con particolari molto interessanti. Questa seconda sepoltura era infatti allagata e i resti umani ritrovati appartenevano presumibilmente ad un personaggio di rango (come indicato da perle e perline che ne adornavano il corpo) e altri tre personaggi probabilmente accompagnatori anch’essi. Come riportato a National Geographic l’archeologo Izumi Shimada della Southern Illinois Universityha ricordato che seppur sono state già trovate tombe allagate nella regione, questa “è la prima sepoltura che documenta una tomba di una personalità di rango così elevato da essere venerata”. Wester LaTorre sottolinea come “sapevano che sarebbe rimasta sommersa dalla falda acquifera ed è come se volessero assicurare la fertilità dei terreni della regione”. I Lambayeque costruirono diversi sistemi di irrigazione per assicurarsi acqua nel deserto e la loro sussistenza dipendeva da sporadiche piogge, spesso torrenziali che si alternavano a lunghi periodi di siccità.
La tomba si trova nei pressi di Chiclayo all’interno del complesso di Chotuna-Chornancap, a due passi dal mare, come molti centri spirituali Lambayeque che avevano in Naymlap il loro fondatore. Egli giunse dal mare e si trasformò in uccello. Anche a Chotuna molti gioielli sono ornati con elementi in rilievo legati all’acqua e al volo e diverse le conchiglie spondylus ritrovate. Ma l’elemento più interessante è la presenza dell’acqua. L’usanza della sepoltura connessa all’acqua con sepolture allagate (le ultime sono state ritrovate a 6 metri di profondità, sotto la falda freiatica che scorre a 5 metri di profondità) potrebbe ricondurre ai culti dell’acqua degli Inca, ben rappresentata anche in santuari famosi quali Machu Picchu. Wester La Torre ricorda alcuni dati che anche noi personalmente abbiamo raccolto in una ricerca antropologica nel 1999-2000 nei dintorni di Cusco: gli Inca pensavano che la loro essenza fosse un seme che andava nutrito in vita perché potesse rigermogliare dopo la morte, dando nuova vita.
Non tutti gli archeologi concordano con La Torre sul fatto che la sepoltura fosse volutamente posta sotto il livello di falda, perché questo livello può cambiare nei secoli sia per le precipitazioni sia per le pratiche agricole. In ogni caso la tomba è di eccezionale rilevanza perché è una delle poche tombe d’elite del periodo tardo Sicán, quando (nel 1100 dC circa) furono colpiti da una grande siccità seguita da inondazioni che li portarono al caos prima e alla decadenza poi.

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Archeologia fra i ghiacci dell’Alaska: sveli il passato, conosci il futuro

Foto di K Brition_ Università di Aberdeen

Territori difficili, estremi: montagna, oceani, deserti. Questo lo scopo di arkeomount.com, raccontare le ricerche archeologiche in terreni “difficili”. Lo scioglimento dei ghiacci ai poli ha recentemente fornito un nuovo terreno di ricerca: il ghiaccio. La BBC dà notizia che un sito archeologico perfettamente conservato dal permafrost dell’Alaska sta scomparendo a causa del riscaldamento globale. Il sito è (era) spettacolare: contiene pezzi unici e intatti della cultura Yup’ik Eskimo, risalenti a 500 anni fa. Ricercatori dell’Università di Aberdeen hanno presentato le loro ricerche al recente Festival della Scienza Britannico.
Al momento le analisi si concentrano sui capelli di queste genti per svelare come l’uomo si possa adottare a rapidi cambiamenti climatici. La cultura Yup’ik fu una delle ultime contattate dagli Eskimo e viveva su un’area grande come tre volte la Scozia.
Nonostante si sappia ancora poco della loro vita sociale gli studiosi hanno messo al sicuo centinaia di artefatti che sono stati ritrovati vicino al villaggio di Quinhagak e che rischiavano di essere rovinati ( o persi) dallo scioglimento del permafrost. Sono stati recuperati oggetti in avorio, resti di animali, pellicce e persino capelli umani perfettamente conservati. Con il suo scioglimento lo stesso permafrost che ha contribuito alla conservazione di questi artefatti li sta consegnando all’archeologia che sta “correndo” per recuperarli prima che, esposti alle intemperie, vadano perduti per sempre. La copertura di ghiaccio è al suo minimo, assicurano i ricercatori, e sta continuando ad assottigliarsi.
Il sito, noto come Nunalleq, fu abitato tra il 1350 e il 1650 durante un periodo di “piccola era glaciale.”. Analizzando i capelli gli studiosi sperano di comprendere come gli abitanti di Nunalleqabbiano modificato le proprie abitudini per resistere al cambiamento climatico.
“I segni del cibo ingerito, trasmesso ai capelli sotto forma di isotopi, ci aiutano a ricostruire la loro dieta”, afferma il Dr Kate Britton, dell’Università di Aberdeen. “Analizzando i capelli di pià persone stiamo rivelando una popolazione che si cibava di salmone, caribou e altre speci animali”
Ora la ricerca si sposterà su siti più “giovani” che ci dirà come la dieta sia cambiata per adattarsi ai cambiamenti climatici, che sicuramente èp stata condizionata da un cambio nella disponibilità di speci animali disponibili.
Il Dott. Knecht ha sottolineato alla BBC come sia importante questa ricerca anche per comprendere come si possa far fronte al prossimo futuro, nel quale diverse popolazioni locali (attrono allo stretto di Bearing) dovranno far fronte ad un drastico calo delle scorte alimentari come il salmone: “Questa non è solo un’area di studio, ma può diventare un modello predittivo per ciò che ci attende nelle prossime decadi”.

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In una grotta osso siberiano di 50.000 anni fa rivela l’esistenza dei Denisovan

La Grotta Denisovan - immagine da www.siberiantimes.com

La scorsa settimana il SiberianTimes ha dato notizia di una ricerca condotta da genetisti del Max Planck Institut di antropologia evolutiva di Lipsia (Germania), che hanno sequenziato il genoma di alcune ossa appartenenti ad una ragazza di 50.000 anni fa, ritrovate sui monti Altai, nella grotta di Denisova. Il risultato, ottenuto dall’istituto tedesco in collaborazione con la Harvard Medical School americana grazie ad una nuova metodologia che consente di amplificare singoli filamenti di DNA fino ad ingrandirli 31 volte, è sorprendente. L’osso del dito mignolo di questa ragazza, oltre a dirci che aveva occhi marroni e capelli scuri, ci parla di una nuova specie umana che sarebbe emigrata dall’Africa pur non essendo Neanderthal, ora detta Denisovans, dal nome dalla grotta in cui nel 2008 è stata ritrovata la ragazza.
La grotta è facilmente accessibile, si trova ad un altitudine di soli 28 metri sopra il fiume che scorre nelle vicinanze, è visibile dalla strada carrabile. Lunga 110 metri e con un’area totale di 270 mq, ha servito come un rifugio affidabile per migliaia di anni, con evidenza di occupazione ominide iniziate 175 mila anni fa.

”Siamo rimasti scioccati – ha affermato il team leader Svante Paabo, un paleo-genetista in organico all’istituto Planck – non vi è alcuna differenza tra quello che possiamo imparare geneticamente su una persona che ha vissuto 50.000 anni fa da una persona oggi, a patto di avere le ossa abbastanza ben conservate”. I Denisovans condividono materiale genetico con gli aborigeni australiani e alcune persone in Melanesia. I suoi discendenti ora vivono in Australia, Filippine e in Nuova Guinea e prima di estinguersi hanno occupato gran parte dell’Asia, decine di migliaia di anni fa. Ad oggi, tutto ciò che rimane di loro sono il dito della ragazza e due denti trovati nella Grotta di Denisova – o come la chiamano i locali Ayu-Tash, che significa Roccia dell’Orso,  inserita in un monumento naturale e archeologico situata nella valle del fiume Anui, a 150 km da Barnaul. I genetisti hanno potuto attestare che il genoma Denisovan ha sequenze simili agli uomini di Neanderthal e ad undici esseri umani moderni provenienti da tutto il mondo. Questo significo che vi fu un incrocio tra i Denisovan ed altri gruppi umani e anche che il loro DNA sopravvive in alcune popolazioni odierne: “E’ chiaro che il materiale genetico dei Denisovan ha contribuito al 3-5% dei genomi delle popolazioni autoctone di Australia e Nuova Guinea, degli aborigeni dalle Filippine, e alcune delle isole vicine”, sottolinea il genetista di Harvard, David Reich.
Speriamo che questa notizia porti a nuovi studi che dimostra per l’ennesima volta come la storia delle migrazioni dall’Africa non è così semplice da esaurirsi “in tre ondate”.

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