Le Palafitte alpine ora UNESCO: Fiavè e Ledro

Il nuovo museo delle palafitte di FiavèLo scorso 14 aprile è stato inaugurato il nuovo Museo delle Palafitte a Fiaveè (Trento) per valorizzare un insieme archeologico che, insieme a quello di Molina di Ledro (sempre in Trentino) è stato inserito dall’UNESCO nella World Heritage List insieme ad altri 109 siti palafitticoli dell’arco alpino.
Ci siamo recati a Fiavè nello scorso mese per visitare l’area archeologica e l’esposizione museale che raccoglie i reperti recuperati nell’area, vissuta dal Mesolitico (VII millennio a.C.) fino all’Età del Ferro. Le palafitte di Fiavè in realtà sono state vissute soprattutto tra IV e II millennio a.C. e hanno visto succedersi palafitte elevate in acqua a capanne a secco, erette su bonifiche della sponda lacustre. Il percorso museale è ben costruito con reperti, videoinstallazioni (appropriate! Non sempre è così) e molto spazio alla didattica, non solo per bambini. Affascinante la struttura del museo – ricavata dall’antica Casa Carli – che dà giusta luce ai reperti incredibili ritrovati nell’antico lago. Alcuni pezzi sono unicum europei per comprendere e ricostruire la vita in età antica: monili in bronzo, vasellame in ceramica e persino ambra (dal Baltico) e bronzo. Certo ciò che sorprende di più sono i pezzi in legno, sopravvissuti quasi quattromila anni: strumenti da lavoro, utensili da cucina e per il lavoro quotidiano per un totale di 300 pezzi.
L’area archeologica è suggestiva, soprattutto se raggiunta a piedi in una giornata uggiosa, come capitato a noi e seppur poco è rimasto, i legni che emergono dalla torbiera completano il paesaggio circostante con un tocco arcano, che aiuta a tuffarsi nel passato.
Anche nel non distante sito di Molina di Ledro c’è un museo accompagnato da palafitte ricostruite a scopi museali e didattici. Non visitiamo il museo da un anno circa, ma la vicinanza del lago di Ledro e la conca in cui è immerso il sito, aiutano a riflettere su quale sia stato lo scenario qualche millennio fa. La ricostruzione delle tre palafitte a Ledro ha impegnato 5 mesi effettivi tra il 2005 e il 2006 e ha visto l’utilizzo di 70 metri cubi di legname (130 pali complessivi di cui i più lunghi di 9 metri, più 2500 fasci di cannucce per la copertura dei tetti)
Il materiale recuperato durante le ricerche svolte fra il 1929 ed il 1983 a Ledro ha consentito agli studiosi di replicare alcune dinamiche costruttive, senza però consentire di indagare tutte le molteplici forme (tante erano le gamme costruttive usate dal 4.000 a.C. al 1.500 a.C.). Gli studiosi sono concordi nel ritenere che alcune capanne possano avere avuto una dislocazione su piattaforma installata su pali isolati “di bonifica” (alcuni dunque con funzioni portante, altri con ruolo di “costipazione”- come a Fiavè), mentre in anni recenti l’attenta disamina della morfologia di alcuni pali di fondazione (con due fori rettangolari distanti circa un metro), ha consentito di avanzare l’ipotesi che una parte del villaggio fosse costruita secondo il modello definito “Stelzbau”; per gli edifici a “Stelzbau” gli esempi meglio definiti e studiati in area alpina sono quelli dei siti di Thayngen Weier in Svizzera, di Ödenahlen e di Kempfenhausen in Germania, di La Motte aux Magnins e di Chalain 3 in Francia (della “Cultura di Pfyn”, “Altheim”, “Cortaillod” e “Horgen” ca 3000-4000 anni a.C.).
Montagna, lago e offerte votive sul fondo del lago. Un tema che torneremo ad approfondire.

 

Museo delle Palafitte di Fiavè

Museo delle Palafitte di Fiavè

Museo delle Palafitte di Fiavè

Museo delle Palafitte di Fiavè

Museo delle Palafitte di Fiavè

 

 

 

 

 

 

 

 

Palafitta ricostruita a Molina di Ledro

Palafitta ricostruita a Molina di Ledro

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Oetzi rende possibile l’analisi del più antico sangue di sempre

 

Immagine tratta da ANSA.it

Un’ANSA di questa mattina rilancia che è stato possibile recuperare alcune tracce del sangue della mummia del Similaun (Oetzi) e coni suoi 5.000 anni p di fatto il più antico sangue umano mai analizzato. I globuli rossi erano rimasti intrappolati nelle ferite dell’uomo (le arterie erano vuote) e l’analisi di un gruppo italo-tedesco (collaborazione tra l’Accademia Europea di Bolzano-Eurac e l’Università Tecnica di Darmstadt) è stata pubblicata sul Journal of the Royal Society Interface.

Riprendiamo l’ANSA e citiamo le parole di Albert Zink, direttore dell’Istituto per le Mummie e l’Iceman dell’Eurac: ”Finora non sapevamo quanto a lungo si potesse conservare il sangue, nè tantomeno come si presentavano i globuli rossi dell’uomo durante l’età del rame”. Per l’analisi è stato utilizzato un microscopio a forza atomica (Afm) per analizzare i sottili campioni di tessuto prelevati dalla ferita sulla schiena, causata da una freccia, e da una ferita da taglio sulla mano destra. il risultato conferma che l’uomo venuto dal ghiaccio è morto subito dopo essere stato ferito da una freccia. Il microscopio a forza atomica, spiega l’Eurac in una nota all’ANSA, analizza i campioni grazie ad una punta sottile che percorre minuziosamente le superfici di tessuto e, per mezzo di sensori, ne registra la forma. Questa operazione consente di ottenere un modello digitale a tre dimensioni del tessuto. Sulle superfici è stata così scoperta la presenza di globuli rossi, rimasti  intrappolati nelle ferite  per 5.000 anni, con la loro classica forma ‘a ciambella’. La stessa struttura che ritroviamo oggi negli individui sani.
“Per essere certi al cento per cento che si trattasse di vere e proprie cellule del sangue e non di polline, batteri o di un’impronta lasciata da una cellula ormai scomparsa, abbiamo adoperato un secondo metodo di analisi: la cosiddetta spettroscopia Raman”, spiegano  Marek Janko e Robert Stark, dell’Università Tecnica di Darmstadt. La spettroscopia Raman illumina i campioni di tessuto con una luce intensa, grazie alla quale si riescono a identificare le diverse molecole per mezzo di uno spettro di dispersione della luce. Questo metodo ha confermato la scoperta.  Oltre ai globuli rossi, l’analisi ha rivelato tracce di fibrina, la proteina che regola la coagulazione del sangue. ”La fibrina – spiega Zink – emerge nelle ferite fresche e successivamente tende a diminuire. Questo conferma la tesi che Oetzi sia morto subito dopo essere stato ferito dalla freccia e non nei giorni successivi, come era stato ipotizzato inizialmente”.

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Pesca in alto a Timor Est, 42.000 anni fa

 

Jerimalai_Tratta dal sito di NewScientist.com

Nel novembre del 2011 la prestigiosa rivista Science pubblicò uno studio guidato dal professor Sue O’Connor of the College of Asia and the Pacific at ANU (Australian National University) con il quale si è annunciato che in Australia sarebbero state provate le più antiche testimonianze archeologiche di pesca in alto mare, databili a 42.000 anni fa.
La ricerca, condotta in alcuni siti di Jerimalai, nelle estremità orientali di Timor Est, è rivoluzionaria perché retrodata di diverse decine di migliaia di anni la più antica prova di pesca in alto mare, ma soprattutto implica sempre maggiori abilità nell’affrontare il mare, da ogni punto di vista. Oltre 38mila resti di ossa di pesce (datate al 42000 BP) provenienti da 2.843 diversi individui di una razza simile al moderno tonno ritrovati insieme al più antico amo da pesca di sempre fatto di conchiglia e databile tra i 23mila e i 16mila anni fa che mostra ottime abilità artigianali necessarie per una tecnologia adatta alla pesca di esemplari così rapidi nei movimenti marini: di certo utilizzavano – a detta degli archeologi – imbarcazioni per il mare aperto e tecniche raffinate. In definitiva questa scoperta racchiude molti semi di pensieri nuovi: 50.000 anni fa, quando si pensa l’uomo raggiunse le coste Australiane prima e Polinesiane poi, utilizzava barche per il mare aperto? Sapeva viverci e pescarci, quindi forse era anche in grado di raggiungere poi il Sud America?

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Il più antico esempio di arte preistorica Americana è un Mammoth

Tratto da www.history.com

Dopo aver parlato nei recenti post di nuove datazioni possibili sull’arrivo dell’uomo nelle Americhe e anche di possibili migrazioni nel Periodo Solutreano, ricordiamo una scoperta del 2009, quando James Kennedy, un collezionista amatore, ha trovato in una grotta in Florida (Vero Beach) un osso fossilizzato con un Mammoth (o comunque un mastodonte).  Il ritrovamento, fortunoso, divenne notizia lo scorso giugno (2011) quando Dennis Stanford, antropologo dello Smithsonian’s National Museum of Natural History pubblica sul “Journal of Archaeological Science” un articolo a riguardo, definendo il pezzo d’arte come eccezionale. Fino a quel momento mai nessun animale proboscideo era stato ritrovato inciso su ossa americane. Non solo. Ma il pezzo – di circa 40 centimetri – rappresenta la più antica forma d’arte nelle Americhe ed è l’unico esempio di disegno di un mammifero estinto dell’epoca glaciale ritrovato fuori dall’Europa.
James Kennedy in realtà trovò il pezzo un paio di anni prima (2007 dunque) ma solo nel 2009 si trovò a ripulirlo dalla polvere, insieme ad altri che aveva recuperato nella grotta di Vero Beach e nello scoprirvi l’incisione lo ha immediatamente consegnato ai ricercatori dello Smithsonian Institution e della University of Florida, che lo hanno datato a 13.000 anni prima del presente. Probabilmente l’osso stesso apparteneva ad un Mammoth. Grazie a ricerche interdisciplinari condotte dall’antropologa Barbara Purdy nelle quali sono stati coinvolti ingegneri ed artisti, i ricercatori hanno potuto appurare che il disegno fosse effettivamente di origini preistoriche. Inoltre, la scansione al microscopio elettronico sulle superfici incise ha dimostrato che queste risalgono alla stessa età dell’osso (ergo, furono realizzate 13.000 anni fa). Un’altra indicazione che ha permesso di stabilire la veridicità e l’età delle incisioni è stata fornita dall’assenza di detriti e di linee brusche, che richiamerebbero interventi moderni.
La grotta di Vero Beach già è nota agli studiosi che nel 1915 ci trovarono ossa umane e di mega-mammiferi (inclusi mammoth e mastodonti) estinti nel tardo Pleistocene, tra 10 e 12mila anni fa.
Nelle immagini, tratte dai siti www.history.com e www.npr.org, proponiamo l’osso inciso, ora esposto al Florida Museum of Natural History di Gainesville.

Tratto da www.npr.com

Tratto da www.npr.com

Tratto da www.history.com

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Terza e ultima parte del nostro reportage andino su “Montagne360°”

"Montagne360°" di aprile

 

“Montagne360°”, la Rivista del Club Alpino Italiano, pubblica questo mese di aprile la terza e ultima parte del nostro reportage di archeologia di montagna sulle Ande sudamericane. Dopo Argentina (febbraio) e Cile (marzo), questa nuova pubblicazione racconta l’arrivo in Perù, in concomitanza del centenario della ri-scoperta di Machu Picchu. Da Arequipa al Titicaca, da Tiawanaku (Bolivia) a Cusco, abbiamo provato a riassumere in sei pagine gli affascinanti incontri e le ultime scoperte del panorama archeologico andino peruviano.

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In Sudafrica individuato il più antico fuoco controllato dall’Homo. Erectus!

Grotta di Wonderverk- Sudafrica. Immagine tratta da www.history.net

E’ recentissimo l’annuncio che in Sudafrica sia stato trovato il più antico fuoco intenzionale attribuibile all’Homo, che retrodata di ben 200.000 anni il più antico fuoco combustibile di sempre.
Secondo uno studio pubblicato qualche giorno fa dalla rivista Proceeding of the National Academy of Sciences, risalirebbe ad un milione di anni fa (Paleolitico inferiore) il primo fuoco controllato.

La rivista scientifica multidisciplinare più antica del mondo (settimanale dal 1914), il PNSAS appunto, riporta gli studi dell’Università di Toronto e dell’Università ebraica di Gerusalemme (che ha visto la partecipazione anche dell’archeologo italiano Francesco Berna, attualmente alla Boston University) nella caverna di Wonderwerk, in Sudafrica.  Il sito ci ha lasciato microscopici resti di legno bruciato, insieme a frammenti di ossa carbonizzate e strumenti in pietra suggerendo che il fuoco sia stato usato per cuocere carne. Il contesto illustra come questi materiali sembrano essere stati bruciati sul posto e non possono essere stati trasportati nella caverna dal vento o dall’acqua e ventilerebbero anche l’ipotesi che l’Homo erectus, avrebbe seguito una dieta con cibi cotti, prima del Neanderthals o dell’ Homo sapiens!

Prima di questa scoperta l’evidenza inequivocabile del più antico fuoco umano si ebbe in Israele (grotta di Qesem) e risaliva a 3-400.000 anni fa. Sempre in Israele si trovava il sito più antico (ma non inequivocabile) prima di quest’ultima news.
La grotta di Wonderwerk è abitata continuativamente per 2 milioni di anni dai nostri antenati ominidi e il fuoco in questione è stato trovato in un livello attribuito all’Homo erectus che lo abitò tra 1.800.000 e 200.000 anni fa, confermando altre ricerche che suggerivano in Aisa, Europa e Africa che l’erectus armeggiasse il fuoco già da 1,5 milioni di anni fa, ma senza mai individuare un fuoco all’aria aperta. Mentre i resti interni al fuoco erano strinati, quelli al di fuori non lo erano, segno che il fuoco è stato portato all’interno (ergo, controllato). Inoltre il sito è molto protetto dall’ambiente ed è quasi impossibile che si abbiano incendi spontanei. Infine, i resti ritrovati sono stati scaldati (erano appiccicosi e carbonizzati) indicando che il fuoco è stato realizzato in situ indicando che siamo di fronte alla prima sicura evidenza di fuoco controllato in contesto archeologico. Lo stesso Dott. Berna ha fatto notare come scienziati esterni al mondo strettamente archeologico, come il primatologo Richard Wrangham, sostengano da tempo che l’erectus abbia maneggiato il fuoco. Secondo Wrangham una dieta più calorica – a base di cibi cotti –  avrebbe favorito lo sviluppo di cervelli più grandi. Il primatologo americano supporta questa teoria con molti dati inerenti i cambiamenti fisici nei primi ominidi come il rimpicciolimento dei denti e dello stomaco avvenuti proprio durante la presenza dell’homo erectus. Farncesco Berna in un’intervista a History.com, ricorda proprio come “la cooking hypothesis di Richard Wrangham è basata su evidenze filogenetiche e anatomiche che dimostrano come l’Homo erectus abbia caratteristiche evolutive proprie di un essere che si è adattato ad una dieta con cibi cotti. Le evidenze della grotta di Wonderwerk sono in linea con questo scenario”.
Gli studi alla grotta sudafricana sono iniziati nel 2004, lo stesso anno in cui, sempre grazie a studi promossi dalla  Hebrew University of Jerusalem, si pensava che il più antico fuoco umano fosse databile 800.000 anni.
Ripeschiamo dai nostri archivi alcuni particolari di questo studio anche per introdurre ad una questione centrale, ovvero: come si capisce se un fuoco è umano o meno?

Pubblicata prima da Science e poi dal New Scientist, la ricerca in questione venne realizzata in Israele da Nira Alperson, archeologa della Hebrew University of Jerusalem. Secondo queste ricerche a Gesher Benot Ya’aqov, sulle rive del fiume Giordano, circa 790.000 anni fa l’homo erectus avrebbe controllato il primo fuoco. In quel caso furono trovati resti di selce lavorata e di legna (per un totale di 86.000 pezzi). Solo il 4% di questi resti erano bruciati e ciò indusse a ipotizzare che il fuoco fosse controllato sulla base di un ragionamento siffatto: se il fuoco fosse stato naturale, sarebbe bruciato molto più materiale e ciò non avrebbe risparmiato altro materiale al di fuori di legna e selce. Questa ipotesi venne confutata dall’antropologa Americana Sally McBreaty (University of Connecticut in Storrs) che propose di realizzare un fuoco sperimentale e misurare la percentuale di selce e di legna che sarebbe stata bruciata al termine del processo (se questo non fosse stato controllato dall’uomo). Il test non venne eseguito e purtroppo nel 1999 le autorità locali fecero un’opera di drenaggio e distrussero parte del sito: seppur il material raccolto è in salvo, non si potrà mai più ricreare l’esperimento!
Sempre nel 2004 si pensava che un sito kenyota (Koobi Fora) parlasse di una data ancora più antica per il primo “fuoco umano”: alcuni sedimenti indicavano la data di 1,6 milioni di anni fa! Non abbiamo purtroppo dati a supporto di questa ricerca, ma non crediamo avesse le caratteristiche rivelate a Wonderwerk. Sempre per termini di paragone e per completezza di informazione, ecco un ultimo dato: si pensa che il più antico fuoco di ominidi in Europa risalga a 500.000 mila anni fa.

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Studiate le ossa di uomini di 14.000 anni fa ritrovati nelle grotte cinesi. Nuovo ceppo umano.

Il riparo roccioso di Maludong (Cina)

Nel 1979 in due grotte cinesi nella località di Longlin, nei pressi della regione autonoma di Guangxi Zhuang, e nel 1989 a Maludong, vicino alla città di Mengzi (provincia dello Yunnan), erano venute alla luce alcune ossa appartenenti a uomini vissuti tra gli 11.500 e il 14.500 anni fa.

Queste ossa rimasero senza studi fino al 2008 quando una ricerca congiunta ha riunito in una squadra internazionale Darren Curnoe della australiana University of New South Wales (coordinatore) e Ji Xueping dello Yunnan Institute of Cultural Relics and Archeology. I resti fossili delle quattro persone stanno rivelando tratti sconosciuti nel ceppo umano, una sorta di nuovo tassello della specie.
La rivista PLoS ONE ha recentemente pubblicato gli studi del team che ha battezzato questi uomini come “Red-deer Cave people”, ovvero popolo della Caverna del cervo rosso. Queste genti infatti cacciavano il cervo rosso (oramai estinto) e lo cucinavano nelle grotte di Madulong.
Nello studio si legge come le caratteristiche di questi uomini del Paleolitico siano molto peculiari, una sorta di mix di tratti arcaici e moderni: un cranio rotondo e molto spesso, arcate sopraccigliari molto pronunciate, un cervello di grandezza moderata e un lobo frontale di forma “moderna”, volti brevi e piuttosto piatti con un naso largo e molari molto grandi (ma è assente il mento).

Il professor Curnoe riconosce come la scoperta potrebbe aprire uno scenario nuovo nell’evoluzione umana e per questo motivo sono riluttanti a dare una classificazione precisa a questi resti, classificato comunque come Ominidi. Potrebbero anche appartenere ad una specie umana sconosciuta sopravvissuta fino alla fine dell’era glaciale 11mila anni fa e migrata dall’Africa senza interferire geneticamente con le popolazioni locali.
Le ricerche sul Dna (ricordiamo che non sempre è possibile trovare esemplari di Dna intatto e sufficiente a ricavarne informazioni) non hanno al momento dato esiti interessanti, ma in corso altri tentativi.

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Il Professor Bradley conferma le ricerche in Atlantico per trovare traccia dell’arrivo di Europei in America durante il Solutreano. Ecco altre teorie a sostegno dell’ipotesi.

 

Il professor Bruce Bradley

Abbiamo raggiunto il professor Bruce Bradley, dell’Università di Exeter (Inghilterra), per avere maggiori dettagli riguardo le prossime ricerche che potrebbero rinforzare quelle appena presentate nel libro scritto insieme al Dott. Dennis Stanford, del Smithsonian Institution di Washington, D.C.  (“Across Atlantic Ice”) del quale abbiamo parlato nel nostro ultimo post.
Il Prof. Bradley ha confermato a www.akweomount.com che è in programma per questa estate un tentativo di identificare ed investigare il sito di Cinmar, 60 miglia al largo delle coste della Virginia (USA). Il progetto sarà sotto la direzione del Prof. Stanford. Il sito in oggetto è posto a 250 metri di profondità, il che lo rende irraggiungibile per i sommozzatori. Si ricorrerà quindi a metodologie di archeologia subacquea con tecnologie dotate di sensori controllati a distanza (remote sensing technology), che sono ancora da definire.

Se venisse confermato l’arrivo di Europei nel 24.000 a.c. si avrebbe una conferma di diverse teorie archeologiche spesso poco ascoltate che vanno nella stessa direzione e alle quali abbiamo accennato durante i nostri post live dal Sudamerica (vedi post dal 19 settembre 2011). Ci riferiamo ad esempio alle teorie di linguisti come Johanna Nichols che dal 2002 conferma come tutte le lingue indigene di Nord e Sudamerica derivino da un ceppo comune, ma anche sottolinea che la attuale differenziazione possa essere il risultato di almeno 25-30.000 anni di storia e non di solo mille anni (come da “teoria Clovis”). Allo stesso modo i genetisti ricordano come il DNA mitocondriale presenta delle differenze tali che non è possibile ricondurle ad un gruppo unico recente. Merrywheter ed altri antropologi molecolari – sempre nel 2002 – sostengono che la presenza umana nelle Americhe non possa essere inferiore a 25.000 anni.
Quindi l’arrivo europeo di Solutreani nel 24.000 a.C. potrebbe essere una tessera che mancava dal mosaico e costringerebbe a riconsiderare molte ricerche tenute al margine fino ad oggi.
Cercheremo di rimanere in contatto con i due studiosi e tenervi aggiornati nel corso dell’anno sull’evoluzione delle loro ricerche.

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Una nuova ricerca sostiene che Europei del Paleolitico Superiore giunsero in America attraversando il mare, circa 25.000 anni fa

 

Le due teorie migratorie a confronto

Pochi giorni fa (fine febbraio) due rispettabili giornali statunitensi (The Indipendent e The Washington Post) hanno reso pubbliche le ricerche che i professori Dennis Stanford, del Smithsonian Institution di Washington, D.C. (USA) e Bruce Bradley, dell’Università di Exeter (Inghilterra), hanno dato alle stampe con il recente ‘Across Atlantic Ice’.

Grazie all’analisi e alla datazione di alcuni reperti (in particolare strumenti litici) ritrovati sulle coste orientali degli attuali Stati Uniti si pensa che tra il 24.000 e il 17.000 a.C. (ben prima della teoria di Bering che prevede l’arrivo dell’uomo siberiano attraverso lo stretto di ghiaccio circa 10.000 anni fa) alcuni Europei abbiano superato il mare Atlantico per stabilirsi in America.

La novità rispetto ad altri reperti di stampo Solutreano ritrovati in America e attribuiti a diverse migliaia di anni dopo l’attraversamento di Bering è che questi sono stati datati grazie alla stratigrafia di sei recenti scavi (tre in Maryland, due in Virginia e uno in Pennsylvania) che li hanno identificati come contemporanei di identici strumenti europei.

Uno dei ritrovamenti in Virginia è stato fatto da un pescatore, 100 km dalle coste attuali, in una porzione di terra che all’epoca dei Solutreani era emersa. Sempre in Virginia un coltello recuperato nel 1971 è stato analizzato nuovamente e la selce da cui è stato ricavato è francese.
Il Solutreano (periodo del Paleolitico Superiore compreso tra il 21.000 e il 18.000 a.C. circa) è caratterizzata da una produzione di strumenti litici a ritocco piatto, ottenuti per distacco a pressione di sottili lamelle di pietra. Nell’immagine presentiamo una serie di punte di freccia tipiche del periodo, dette “foglie di lauro” (fonte dell’immagine: www.antiqui.it).

Se aggiungiamo che recentemente una ricerca del DNA svolta su quasi 8.000 scheletri della Florida ha rivelato come il marcatore genetico più rivelante sia Europeo (e non Est Asiatico), ecco che lo scenario completo proposto dai due ricercatori: imbarcazioni europee avrebbero affrontato il mare 20-25.000 anni fa seguendo la linea di costa ghiacciata (2.400 km) che incorniciava la parte settentrionale dell’Atlantico.

Come sosteniamo dall’inizio del nostro blog, è ancora una volta la ricerca nelle zone “dimenticate” che porta evidenze in grado di modificare il paradigma: in questo caso l’archeologia subacquea aiuterà ad investigare la costa 160 km ad est della Virginia, per rivelare tutto il sito che ospitò l’arrivo dei Solutreani. Le ricerche sono previste per questa estate, e altri 6 o 7 siti su attuale terraferma sono nelle mire dei due ricercatori, che già hanno previsto ulteriori ricerche sul campo per aumentare i dati in loro possesso.

 

La copertina di "Across Atlantic Ice"

Strumenti Solutreani (immagine tratta da www.antiqui.it)

Il professor Dennis Stanford in una foto tratta da www.smithsonianscience.org

 

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Droni e tecnologie per la prospezione archeologica – una proposta italiana e la scoperta di Tarquinia – in anteprima per Arkeomount

A febbraio siamo stati alla prima edizione della fiera ExpoEmergenze a Bastia Umbra per incontrare Siralab (www.siralab.com), una realtà italiana SpinOff accademico del Dipartimento di Ingegneria Elettronica e dell’Informazione dell’Università Degli Studi di Perugia, che da qualche anno sta facendo parlare di sé per le tecnologie che mettono al servizio anche dell’archeologia. Nell’intervista con Michele Feroli (Program Manager Siralab) conosciamo da vicino i metodi di prospezione archeologica possibili con le nuove tecnologie. Una piattaforma UAV (unmanned aerial vehicle – veicolo aereo senza pilota) per rivelazioni aerofotogrammetriche consente di effettuare rilievi dell’area archeologica con camere multispettrali per la produzione di mappe digitali di elevazione e modelli 3D. Queste camere a quattro bande vedono il visibile (come le tradizionali fotocamere) e l’infrarosso vicino, consentendo di calcolare l’NDVI (Normalized Difference Vegetation Index) e ottenere mappe di vigore della vegetazione. Attraverso questi dati è possibile monitorare le aree di prossimità degli scavi, al fine di individuare nel sottosuolo la probabile presenza di reperti non ancora portati alla luce.

Siralab ha recentemente preso parte al rilievo dell’area di scavo archeologico di Gravisca, antico emporio commerciale greco-etrusco a Tarquinia, per conto del Prof. Lucio Fiorini, dell’Università di Perugia, direttore degli scavi archeologici del sito.

Pubblichiamo in anteprima e in esclusiva per arkeomount.com alcuni esempi di analisi NDVI in una zona adiacente allo scavo. Non sono le più significative, poiché quelle che evidenziano la presenza di strutture nel sottosuolo sono attualmente oggetto di una pubblicazione scientifica. Nelle immagini che pubblichiamo si può comunque capire come funziona la tecnologia, che evidenza la differenziazione del fogliame, la cui crescita può variare in base alla presenza o meno di strutture. L’applicazione dell’NDVI in questo ambito applicativo è molto innovativa e suggerisce interessanti potenzialità.

Tarquinia vista NDVI by Siralab

Tarquinia NDVI 2 by Siralab

Tarquinia NDVI 3 by Siralab

Speriamo di avere presto la possibilità di pubblicare nuove immagini e approfondimenti sulle ricerche a Tarquinia che pare stiano portando al riconoscimento di una nuova struttura ancora da scavare.

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