Soroche, ovvero il mal di montagna.

 

Il lago Titicaca e una barca Uros

Arrivare sul lago Titicaca é senz’altro emozionante, ma per affrontare al meglio i suoi 3800 metri di altitudine sul livello del mare é importante prepararsi adeguatamente. Non é tanto l’altezza raggiunta la principale causa del mal d’altura, quanto la velocità con la quale si ascende.  Noi infatti siamo giunti a Puno dopo una sosta di cinque giorni ad Arequipa, che si trova a circa 2400 metri s.l.m. Tuttavia, nessuno é completamente esente da qualche disturbo da alta quota, o come lo chiamano qui soroche o apuniamento, e anche noi per 2-3 giorni abbiamo avuto cefalea, nausea e respiro affannoso e battito cardiaco acelerato per aver fatto solo quattro passi!
Ma perché si manifesta il mal di montagna? A livello del mare la percentuale di ossigeno nell’aria é del 21% e la pressione atmosferica pari a circa 760 mmHg. Salendo di quota la percentuale di ossigeno rimane la stessa ma diminuisce la pressione atmosférica, ad esempio a 3000 e’ circa 526 mmHg e scende a 462 mmHg a 4000 metri. Pertanto la percentuale di ossigeno introdotto negli alveoli polmonari ad ogni atto respiratorio ad un’altitudine di 4000 metri é ridotta del 60%. In seguito alla diminuzione di ossigeno circolante, il corpo cerca di adattarsi aumentando la frequenza e la profondità degli atti respiratori e la produzione di globuli rossi, a livello del midollo osseo, per migliorare il trasporto di ossigeno ai tessuti.
Per prevenire o trattare i disturbi più frequenti ma più lievi, il consiglio degli abitanti della zona é bere mate de coca, un infuso di foglie di coca che aiuta a fronteggiare nausea, cefalea e malessere. Consiglio che abbiamo seguito alla lettera: il beneficio si sente davvero! A questo abbiamo però aggiunto qualche compressa di acido acetilsalicilico o altro antinfiammatorio per la cefalea e un’abbondante idratazione per compensare la perdita di liquidi.
Queste precauzioni ci hanno aiutato ad evitare le manifestazioni più importanti del male acuto di montagna (AMS) come grave cefalea non rispondente agli antidolorifici, nausea e vomito, severa astenia (importante affaticamento e debolezza), respiro superficiale, atassia (mancanza di coordinazione). L’ulteriore peggioramento di questi sintomi indica una forma grave di AMS, caratterizzata da respiro affannoso e superficiale anche a riposo, impossibilità a camminare fino alla confusione mentale. Questa situazione rende obbligatorio scendere di almeno 600 metri, per evitare le due complicanze più rare ma più gravi: l’edema polmonare (HAPO) e l’edema cerebrale (HACO), dovute ad un rilascio di liquidi negli spazi extracircolatori di questi distretti.
Per quanto riguarda la profilassi farmacologica il farmaco più utilizzato sia come profilassi che come terapia del mal di montagna é l’acetazolamide, al dosaggio di 250 mg due volte al giorno, sopratutto in soggetti che abbiano in anamnesi precedenti episodi di male di montagna grave, edema polmonare o cerebrale.
Come sempre la migliore medicina è la prudenza e la consapevolezza di ciò che si fa, al resto penserà l’incanto di questi magici luoghi.

 

Foglia di coca - immagine tratta da www.creafarma.ch

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Medicina dei viaggi: come la produzione del chinino uscì furtivamente dal Perù..

 

Chincona ledgeriana - tratta da plantasdemexico.blogspot.com

Molti sapranno che il chinino è un principio attivo contenuto in una pianta nativa del Perù, la “Chincona”, che aiuta a combattere le febbri malariche. Gli Spagnoli lo conobbero nelle loro esplorazioni, ma fu un gesuita – Bernabè Cobo – ad esportarlo per primo in Europa, permettendo a Roma di conoscere il chinino nel 1632.
Ma a noi piace ricordare un’altra storia, quella di un personaggio che ha concesso al mondo di godere delle proprietà di questa pianta, per molto tempo unico rimedio contro la malaria.
Il suo nome è Charles Ledger, avventuriero inglese (1818-1905), che arrivò in Perù nel 1836 per intraprendere una carriera di commerciante. Nel 1852 è il primo a pensare di esportare l’alpaca, che vendette allo stato australiano del New South Wales. Purtroppo la legge peruviana ne impedisce l’esportazione, così – per riuscire nel suo intento – deve attraversare le Ande con tutto il gregge passando dalla Bolivia all’Argentina e giungere così in Cile. L’affare (inizialmente) fallisce e dopo diverse disavventure in patria, Ledger torna in Sud America e conosce un peruviano di origine Aymara, Manuel Incra Mamani, che diviene suo amico e factotum.
Intravedendo una nuova possibilità di guadagno, Ledger si “butta” sul chinino, la cui esportazione p proibita fuori dal Perù. Ottiene 20 semi di Chincona e li affida a Mamanì per avviare una coltivazione dalla quale ricavarne molti di più. Mamani si reca in altura per trovare un terreno ideale ai loro propositi e di fatto scompare ai margini dell’attuale confine boliviano per quattro anni. Ledger non sa più nulla di lui, fino a che un giorno l’indio si presenta alla sua porta con 20 kg di Chincona, della specie Calisaya (una delle 40 specie esistenti). Era rimasto tre stagioni sull’altipiano senza risultati a causa di forti gelate e solo la quarta stagione aveva dato i suoi frutti! Per raggiungere Ledger, Mamani si fa 500 km a piedi!
Ledger fa arrivare al fratello in Inghilterra, usando vie clandestine, parte di questi 20kg, con lo scopo di venderli al Governo Britannico, ma questo li rifiuta perché preferisce i semi ottenuti dalle colonie indiane. Il fratello di Ledger si reca allora in Olanda, il cui governo non solo ne compra una parte, ma avvia una piantagione sull’isola di Giava, con un grande successo. Da quel momento il chinino non è solo peruviano e la piantagione olandese a Giava diviene la produttrice del 90% di chinino nel mondo, almeno fino al 1940. La specie assume il nome di “Cinchona ledgeriana”, mentre Mamani viene scoperto a raccogliere semi di questa pianta in Perù e per questo perde la vita.
Gli ufficiali inglesi preferiscono continuano ad usare il chinino per inventare Gin Tonic e Acqua Tonica…

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Juanita – la ragazza del gelo – e il sito archeologico più alto del mondo.

Anno 1995: sulla cima del Vulcano Ampato (6.312 metri s.l.m), dirimpettaio del vulcano Misti, alle spalle della città peruviana di Arequipa, gli archeologi Johan Reinhard e José Antonio Chávez ritrovano il corpo mummificato di una ragazzina Inca, ora nota come “Juanita” in onore dell’archeologo americano.
La cosiddetta “ragazza del gelo” è forse la più famosa dei 18 corpi mummificati sacrificati in epoca Inca e ritrovati ad oggi sulle cime delle Ande (14 in Perù e 4 in Argentina – uno è custodito al museo M.Gambier di San Juan, che già abbiamo visitato lo scorso novembre).

Siamo stati ospiti del Prof. Chávez, protagonista del ritrovamento e delle indagini effettuate sul corpo di Juanita e ora Direttore del Museo Santury dell’ Universidad Católica de Santa María di Arequipa (Peru) , che ne custodisce e conserva i resti.

E’ possibile definire il luogo del ritrovamento di Juanita, come il più alto sito archeologico del mondo, oltre i seimila metri. Le ricerche dei due archeologi “alpinisti” sono iniziate nel 1995 e possono essere considerate come il culmine di un progetto di ricerca iniziato nel 1979 con il nome di “Santuari d’Altura del Sud Andino”.
Il progetto ha visto svolgere ricerche sulle cime e sui vulcani più alti delle Ande: Pichu Pichu, Huarancante, Calcha, Chachani, Misti. Il primo bimbo inumato Inca di cui si ha notizia risale al 1964, quando un fardo funerario è stato ritrovato sulla cima del Pichu Pichu. Le prime ricerche importanti risalgono al 1989, sul ghiacciaio Coropuna. Il 2 settembre 1995 è una data “chiave” per le ricerche archeologiche in montagna: approfittando dell’eruzione del vicino Vulcano Sabancaya, i due ricercatori organizzano una spedizione sul vulcano Ampato, i cui ghiacci si sciolgono a causa della caduta della cenere vulcanica e consentono di investigare il terreno sottostante. Viene così ritrovata Juanita, in ottimo stato di conservazione grazie ai ghiacci perenni in cui si trovava da oltre 500 anni. Un mese più tardi altri tre corpi vengono identificati a 5.800 metri s.l.m. e nel 1996 la spedizione al Vulcano Pichu Pichu rivela altre due mummie con le loro offerte rituali. E’ poi stata la volta del Vulcano Sara Sara, che ha restituito una ulteriore mummia.

Il Prof. Chávez è stato così gentile da concederci una visita privata e un’intervista in esclusiva “a porte chiuse”. Purtroppo il filmato non è molto chiaro a causa della luce minima alla quale è possibile esporre il corpo di “Juanita”, ma speriamo possiate ugualmente apprezzare l’interessante intervista, che ci svela i segreti del ritrovamento e della conservazione di questo eccezionale reperto.
Gl Incas furono i primi a “sfidare” le vette andine, da sempre considerate sacre, installandovi dei santuari per riporvi offerte agli “Apus” (spiriti delle montagne) e alle divinità del cielo, quali Inti (il Sole) e Illapa (il fulmine). Inizialmente si pensava che questi sacrifici umani utili per placare terremoti ed eruzioni avessero per protagonisti bambini e bambine (fino ai 12-14 anni di età), mentre ora – ci rivela il prof Chavez – questo modello teorico sta venendo meno, dopo che sul Vulcano Misti sono stati ritrovati i corpi di due adulti.
Le cronache spagnole riportano come il Vulcano Sara-Sara ospitasse un santuario così importante che necessitava di oltre 2.000 sacerdoti. Proprio seguendo le indicazioni delle cronache e le precedenti ricerche sulle “vie delle offerte agli Apu”, Chávez e Reinhard hanno individuato i santuari in vetta.
Un’investigazione non semplice, che implica tecniche di alpinismo e metodi di scavo adatti alla situazione, organizzazione logistica e capacità di rispondere alle emergenze dell’altura.
La conservazione di Juanita, come ci spiega il prof. Chávez nel video, segue criteri semplici: il corpo è conservato in un refrigeratore ad una temperatura di – 20°C che impedisce la crescita di batteri. Il ghiaccio che ricopre parte del corpo è originale e aiuta la conservazione e un leggero velo di acqua pura viene spruzzato due volte all’anno sul corpo di “Juanita” per impedirne la deumidificazione.

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Mummie Chinchorro: le scoperte della paleopatologia

Le ricerche di paleopatologia e bioarcheologia condotte dal dott. Bernardo Arriaza sulle mummie Chinchorro hanno evidenzaito come i membri di queste comunita’ di pescatori-raccoglitori soffrissero di varie patologie.
Ad esempio numerosi individui presentavano l’iperostosi porotica, cioe’ una aspetto poroso della superficie dell’osso. I distretti maggiormente colpiti sono le ossa del cranio in particolare le ossa parietali e il tetto delle orbite. Solitamente questi riscontri stanno ad indicare una cronica e prolungata carenza di ferro che puo’ essere dovuta a vari fattori: dieta, anemie genitiche/ereditarie, infezioni aspecifiche, presenza di parassiti intestinali. In questo caso, secondo gli studi svolti, sarebbe da escludersi la causa alimentare in quanto una dieta a base di prodotti marini e’ suficientemente rica in ferro da assicurarne l’apporto di cui il corpo necesita. , mentre sono state tróvate evidenze di presenza di parassiti intestinali nei membri sia adulti che bambini di queste comunita’. Studi (Confalonieri et al. (1991); Araújo et al. (1985); Reinhard y Aufderheide (1990) hanno diomostrato la presenza di Diphyllobotrium nelle popolazioni preistoriche della costa Nord del Chile, acquisito probabilmente in seguito al consumo di pesce e leone marino mal cucinato. Tuttavia il grado di anemia causato da questo parassita non sembra essere sufficiente da solo a giustificare un tale grado di anemia. E’ lecito pensare che si possano essere sommate altre cause, per esempio infettive, come epatiti e sindromi diarroico/dissenteriche che possono aver contribuito ad aggravare il quadro di anemia.
Il dottor Arriaza, bioarcheologo e collaboratore di Vivian Standen (antropologa fisica) con la quale ha firmato il libro “Beyond Death”), ci ha inoltre raccontato che dall’analisi delle mummie Chinchorro sono emersi altri dati che rivelano come fossero gia’ presenti patologie come le treponematosi (ad esmpio la sifílide), la tubercolosi, il morbo di Chagas e manifestazioni patologiche correlate ad un certo grado di intossicazione da arsenico.
Gli studi infatti suggeriscono come gia’ allora il tasso di arsenico presente nell’acqua, in particolare nella zona di Camarones (a circa 100 km da Arica), risulti varie volte superiore alla norma. L’inotssicazione da arsenico causa, tra le altre cose, un aumento del rischio di mortalita’ perinatale, e tra le mummie chinchorro sono stati trovalti molti feti e neonati mummificati.
Non solo, questi individui erano affetti da ectoparassitosi, dovute alla scarse condizioni igieniche. Sono stati infatti ritrovati pidocchi di circa 8000 anni fa.A noi e’ stato concesso di vederne uno “dal vivo” grazie al microscopiio elettronico di cui si serve l’equipe del dottor Arriaza, che ci ha raccontato che e’ attualmente in corso uno studio comparativo sulle ectoparassitosi che affligevano queste popolazioni e le pediculosi attuali.
Nel video che accompagna questo post il dottor Arriaza ci introduce agli studi condotti presso il laboratorio dell’universita’ di Taripaca (Arica). Per chi volesse approfondire consigliamo il sito gestito dallo stesso dottor Arriaza www.momiaschinchorro.cl

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Le mummie più antiche del mondo

 

Museo San Miguel de Azapa

Arica, Cile. Qui 7.000 anni fa la Cultura denominata Chinchorro ha prodotto le più antiche mummificazioni riconosciute. Tremila anni prima degli Egizi, i Chinchorro – popolazione di cacciatori-pescatori e raccoglitori – svilupparono un complesso sistema di mummificazione conservato perfettamente dall’arido deserto dei dintorni di Arica.
Per approfondire il tema abbiamo avuto l’opportunità di visitare il Museo Chinchorro di San Migeul di Azapa (all’imbocco dell’omonima valle, a pochi chilometri dal centro di Arica) insieme all’archeologo Juan Chacama dell’Università di Tarapaca. Questa università è a capo dei principali progetti di investigazione, recupero e conservazione delle mummie Chinchorro. Il processo di mummificazione intenzionale conosce tre periodi distinti, che prendono il nome dalla colorazione con cui si rifiniva il complesso lavoro: nere (tra il 5.000 e il 3.000 a.C.), rosse (tra il 2.500 e il 2.000 a.C.) e “bendate”, una variazione di quelle rosse. Il corpo veniva completamente scarnificato, i tessuti molli e visceri eliminati, mentre la pelle – conservata “ a lato” – veniva spesso ricucita al corpo. L’argilla era usata per rimodellare l’intera figura, come la maschera che sostituiva il viso. I capelli erano reintegrati alla testa e il colore definitivo ne determinava l’aspetto finale. Il Dottor Chacama ci ha riportato due ipotesi inerenti al processo funerario post-mortem: questo complesso lavoro di mummificazione – che poteva durare diversi giorni – ci parla di una civiltà molto attenta alla vita dopo la morte e ciò ha fatto pensare alcuni ricercatori che le mummie stesse venissero esposte in posizione verticale, come fossero diventati totem che consentivano la connessione con gli antenati. La seconda ipotesi, più immediata, è che fossero interrati in posizione orizzontale, dopo aver ricevuto tutti gli onori della famiglia.
Il mistero di questo complesso processo di mummificazione è ancora più stridente se rapportato alla semplicità della vita quotidiana di questa popolazione di pescatori.
Il Museo Chinchorro conserva manufatti (tessuti, armi, ceramiche) con particolare attenzione ai resti umani (mummie incluse) che possono godere della naturale conservazione regalata dal deserto più arido del mondo.
Ad oggi sono state documentate 300 mummie Chinchorro, delle quali il 47% è stato preservato naturalmente dal deserto (grazie al processo di disidratazione dei sali contenuti nella sabbia), mentre il rimanente 53% sono corpi che hanno subito un trattamento artificiale o intenzionale subito dopo la morte.

Abbiamo infine visitato il Museo “El Sitio” dove l’Università di Tarapaca svolge annualmente ricerche sul campo in quello che fu il primo luogo di ritrovamento delle mummie Chinchorro, a pochi passi dal centro cittadino: qui lo scavo è “aperto” e il visitatore può apprezzare l’avanzamento dei lavori, protetti da un vetro in plexiglass. Il video che segue mostra il Museo “Colon – El Sitio” di Arica.

Museo El Sitio (1), Arica

Museo El Sitio (2), Arica

Mummia Chinchorro 1

Mummi Chincorro 2

Museo Chinchorro

Museo Chinchorro 2

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Petroglifi altipianici: Arica e le sue valli.

 

Entrando nella Valle di Azapa

Arica, la città più a nord del Cile, è ubicata sulla costa, ma si trova vicinissima alle Ande, tanto che le popolazioni che vi abitano continuativamente da almeno 11.000 anni hanno contatti costanti con la vicinissima Cordillera.
La zona di Arica è considerata “deserto assoluto” con una precipitazione di soli 0,03 mm di acqua all’anno. La costa è ricca di nutrimenti grazie alla corrente di Humboldt che dal sud porta fino a qui moltissimi elementi come il plancton, cibo preferito da tantissime specie ittiche. Mentre poco all’interno si incontrano le “chimasi”, ovvero lagune di acqua dolce create dall’acqua che emerge dalle gole (“qebradas”) scavate dai fiumi, che scendono dalle cime andine. In soli 200 km dalla costa si arriva ai 4.000 metri di altura e due sono le valli che da millenni vedono il passaggio umano con testimonianze indelebili: la valle di Azapa e quella di Lluta.
I petroglifi, ovvero figure costruite con l’accostamento intenzionale di pietre, risalgono al Secondo Periodo Intermedio, tra il 1.100 e il 1.400 d.C. prima dell’arrivo degli Incas.
Le immagini che abbiamo scattato vi riportano le più impressionanti, come quelle dei giganti di Arica, alti circa 50 metri nella valle di Lluta (13 km a nord della città) e quelle dei siti “La Tropilla” e “Cerro Sagrado”. Quest’ultimo sito (una piccola collina tonda e ben riconoscibile) è ancora oggi utilizzato dagli autoctoni per cerimonie tradizionali in favore delle divinità locali (come la Pachamama, la Madre Terra).
A “La Tropilla” si possono ammirare rappresentazioni di lama, anche accompagnati da personaggi a carattere sciamanico, che indirizzano il gregge verso la costa. Tutte queste figure (lama, felini, aquile e altri animali ai quali si aggiungono gli umani, anche “danzanti”), sono state interpretate come un sistema di comunicazione per guidare i pastori che accompagnavano gli animali domesticati dall’altipiano verso la costa. Da un lato segnalavano la direzione corretta verso il mare, dall’altro ne segnalavano la prossimità e, infine, avevano una funzione di protezione e di buon augurio.

 

Valle di Lluta

Petroglifi in Lluta

I giganti di Lluta

Cerro Sagrado, valle di Azapa

Petroglifi nella Valle di Azapa

Il "ballerino" di Azapa

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Progetto Anillo: le scienze si incontrano per rivelare il passato.

 

Il poster del Progetto Anillo - tratto da cienciaymemoria.cl

All’interno dell’Istituto di Investigazione Archeologica e Museo R.P.G. Le Paige di San Pedro di Atacama, abbiamo avuto il piacere di conoscere il dott. Germán Manriquez, direttore del progetto “Anillo ACT-96”, che ha come obiettivo principale di determinare i modelli di interazione e di mobilità all’interno della regione dell’oasi di Atacama e aree confinanti del Nord e del Centro del Cile durante il periodo detto Orizzonte Medio ( 700 – 1100 d.C.).
Un progetto innovativo, che per la prima volta cerca di rispondere ad uno dei molti quesiti ancora senza risposta del continente sudamericano: da dove viene la popolazione che si insediò nel Salar di San Pedro di Atacama? Da un anno un team interdisciplinare, coordinato dal dott. Manriquez, utilizzando marcatori morfometrici, odontologici, genetici, chimici e mineralogici potrebbe provare come la mobilità tra l’Amazzonia e la costa cilena non fosse impossibile. Fino ad ora i marcatori più comunemente utilizzati sono stati quelli ritrovati nel contesto classico dello scavo archeologico come ceramica e tessuti ed altri più specifici come il materiale di base per ricavare le tavolette allucinogene. Sono quindi stati presi in considerazione altri elementi come gli alcaloidi presenti nelle bevande, nel fumo, negli accessori per l’assunzione di allucinogeni e nei resti umani, il tipo di deformazione intenzionale del cranio, la composizione minerale e la diversità delle tavolette da fiuto, la composizione dei manufatti di metallo e l’analisi genetica del DNA dei batteri presenti nel tartaro dentale come marcatore di polimorfismo della popolazione umana.
In particolare lo studio del DNA è reso difficoltoso dalle condizioni estreme di questo territorio desertico che ne danneggiano la struttura rendendo necessario pertanto affiancare allo studio genetico l’analisi di altri marcatori di popolazione.
Un altro dato interessante raccontatoci dal dott. Mariquez riguarda i risultati emersi dallo studio delle ossa nasali dei crani ritrovati. Sono state infatti riscontrate, attraverso lo studio radiografico e morfoscopico, lesioni a livello delle ossa delle vie aeree superiori (setto nasale, sfenoide, palato duro) dovute verosimilmente all’inalazione di sostanze psicotrope. Lo studio si propone pertanto di analizzare queste lesioni in comparazione con quelle prodotte in soggetti che attualmente fanno uso di droghe (come ad esempio cocaina).
I vari esperti hanno già analizzato i resti di 325 individui provenienti da differenti cimiteri dell’area di San Pedro (alla fine di questa prima parte di ricerca saranno 600), 3550 minerali, 500 oggetti metallici e stanno iniziando lo studio delle 490 tavolette di legno per l’assunzione di allucinogeni, incrociando dati radiografici, morfometrici e iconografici.
Le Istituzioni conivolte in questo ampio progetto sono: Universidad de Chile, Universidad Càtolica de Norte, Istituton de Investigaciones Arqueológica y Museo Le Peige, Conicyt e il Consejo de Monumentos Nacionales.
Per approfondimenti www.cienciaymemoria.cl

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Museo archeologico Le Paige di San Pedro de Atacama. Una perla nel deserto.

 

Ingresso del Museo Le Paige

Siamo giunti a San Pedro de Atacama, l’oasi ai bordi del deserto più arido del mondo, posto ad un altitudine superiore ai 2.400 metri s.l.m.
I dintorni contano alcuni dei paesaggi più suggestivi del pianeta , come la Valle della Luna o la Valle Arcoiris, le lagune altipianiche e i numerosi geyser dei dintorni. Qui l’uomo è giunto almeno nel 9.000 a.C. (cultura Lickanantay), ma la massima espressione l’ha raggiunta nel periodo contemporaneo ai contatti con l’impero altiplainico di Tiawanacu, tra il 500 e il 1000 d.C. Per conoscere la storia degli Atacameñi abbiamo visitato il Museo Archeologico” R.P. Gustavo Le Paige”, che non solo ci ha accolto ma ci ha mostrato anche l’immenso lavoro di conservazione e di studio che è in atto in questi anni attorno ad una delle più grandi collezioni archeologiche riferite ad una solo popolazione di tutte le Americhe.
Il Museo conta infatti 380.000 pezzi, molti dei quali raccolti dal sacerdote gesuita  di origine belga R. P. Gustavo Le Paige, che nel 1955 venne assegnato alla piccola città cilena e, nel tempo libero, iniziò a scavare i cimiteri preistorici degli antichi abitanti della zona. Il Museo, costruito dallo stesso sacerdote a partire dal 1957, è ora gestito dall’Universidad Catolica del Norte, che nel 1963 appoggiò la costruzione del primo padiglione. La stessa istituzione ereditò il museo alla morte del gesuita negli anni ’80, creando l’Instituto de Investigaciones Arqueologicas. Attualmente il Museo conta quattro unità specifiche per la conservazione, la documentazione, l’esibizione e la diffusione delle collezioni, alle quali bisogna aggiungere la recente e importante unità di Educazione.
Tra le collezioni è da segnalare quella, unica al mondo, di complessi allucinogeni: 464 tavolette in legno finemente intagliate, le une diverse dalle altre, risalenti al periodo di influenza Tiawanacu ed utilizzate per l’assunzione di allucinogeni. Abbiamo avuto l’onore di poter ammirare dal vivo anche la preziosa tunica Tiawanacu “n.° 5382.1”: non ne esiste ad oggi un altro esempio così ben conservato che testimoni l’abilità tecnica e iconografica di cui erano capaci gli abili tessitori di 1000 anni fa.
Fino al 2007 nel museo erano esposti anche i corpi umani mummificati molto ben preservati del popolo Lickanantay. Da maggio di quell’anno il Museo ha accolto la richiesta della comunità indigena e per rispetto verso la stessa ha ritirato dall’esposizione i corpi, che ora sono conservati in un locale adeguato e non visitabile, orientato verso il monte Licancabur come è costume per questa millenaria popolazione. I preziosi tesori qui conservati (molti dei quali mai esposti al pubblico) troveranno un’adeguata collocazione nel nuovo museo progettato in sostituzione dell’attuale, la cui apertura è prevista nel 2014.
Nelle fotografie che accompagnano il post potete ammirare alcuni petroglifi locali che raccontano e comprovano la discesa dei Tiawanacu dalla originaria zona del Titicaca sino alle oasi atacameñe.

 

Ubicazione di San Pedro

Tavoletta per assunzione di allucinogeni

Riparo roccioso con petroglifi - Valle di Arco Iris

Petroglifo di influenza Tiawanacu (scimmia della zona Amazzonica)

Altro petroglifo di Arco Iris

Valle della Luna

Laguna di Chaxa nel deserto di Atacama

Fenicotteri alla laguna di Chaxa

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Megafauna: con chi aveva a che fare l’uomo preistorico in Sud America

A colloquio con uno dei maggiori paleontologi cileni, il dr. Juan Castillo, direttore della società cilena di ricerca paleontologica Grinpach (Grupo de Investigaciones Paleontologicas Chile – www.grinpach.cl) e curatore del Museo Cileno di Paleonotologia di Santiago del Cile.
In questa breve intervista il prof. Castillo ci introduce alla megafauna con cui aveva dovuto confrontarsi l’uomo preistorico in Cile, dove molti sono i siti preistorici che sfidano i modelli storici accettati, come Monte Verde, la cui datazione al 11.500 a.C. ha retrodatato la presenza umana nel continente. In realtà questo sito ha restituito datazioni anche al 33.000 a.C., ma siamo in attesa di avere news a riguardo per potervi dare informazioni complete a riguardo.
Il Grinpach è l’istituzione chiave per lo studio della paleontologia cilena e i suoi corsi annuali destinati a studenti e associati stanno permettendo a questa giovane scienza di avanzare nel panorama nazionale e internazionale come punto di riferimento per scavi, recupero e analisi dei reperti e – ovviamente – ricostruzione storica.

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Isola di Pasqua: non solo Moai

Giungiamo al Museo Fonck di Viña del Mar, sulla costa cilena appena fuori Santiago e siamo colloquio con Betty Haoa Rapahango, discendente di uno dei 122 “pasquensi” sopravvissuti all’impatto con il mondo Occidentale. Betty è la curatrice dell’Archivio del Museo, uno dei più forniti al mondo per quanto riguarda documenti e pubblicazioni sull’Isola di Pasqua. Con lei ci addentriamo nell’interessante sezione espositiva che il Museo Fonck dedica all’Isola di Pasqua, approfondendo metodi di navigazione e teorie di popolamento dell’Isola. Il Museo, che al suo esterno custodisce uno dei 12 Moai esistenti al mondo fuori dal territorio isolano, offre una vasta collezione archeologica (soprattutto Mapuche, incluse alcune incredibili “mazze” incise) e, al piano superiore, una completa esposizione di Storia Naturale.

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