Al via nuove analisi del “Cacciatore di Sovramonte” (Paleolitico): intervista esclusiva al prof Marco Peresani (Uni Ferrara)

Il cacciatore di Sovramonte (immagine tratta da www.estense.com)

Nel mese di gennaio alcune agenzie stampa hanno annunciato la presenza del cosiddetto “cacciatore di Sovramonte” all’Università di Ferrara, perché ne  venga studiato il Dna. Si tratta di un resto scheletrico umano risalente al Paleolitico e ritrovato negli anni ’80 durante dei lavori di manutenzione stradale in una cavità alla sinistra del torrente Rosna nella valle di Cismon. Per saperne di più ci siamo messi in contatto con il prof. Marco Peresani, della Sezione di Scienze Preistoriche e Antropologiche (Dipartimento di Studi Umanistici) dell’Università di Ferrara che sta studiando i reperti in questione.

Arkeomount (A): Prof. Peresani, grazie per aver accettato l’invito di Arkeomount. Prima di tutto, ci introdurrebbe al “cacciatore di Sovramonte”? Chi era e cosa sappiamo di lui ad oggi? Quale la sua probabile storia e quale il probabile motivo della sua morte?

Marco Peresani (MP): “Potremmo immaginare il “cacciatore di Sovramonte” come un pioniere che apre la strada alla colonizzazione delle Alpi Orientali italiane nel Tardoglaciale, quindi nel periodo che segue il ritiro dei grandi ghiacciai alpini iniziato attorno a 20mila anni fa. Le Prealpi Venete ospitarono i primi accampamenti di cacciatori-raccoglitori, ma fu necessario attendere circa 6mila anni affinchè si creassero le condizioni ecologiche per un ‘estensione della rete insediativa lungo le valli. Di questo individuo possediamo le informazioni più consuete, ricavate da studio di morfometria, e cioè che la sua età era all’incirca di 25 anni, la sua statura di oltre 1,70cm, che non sembrava affetto da gravi malattie, che il suo assetto era bene equilibrato. Per l’importanza del corredo e del tumulo di pietre, riteniamo si trattasse  di un personaggio di rango, acquisito presumibilmente grazie alla sua abilità venatoria. Questi corredi sono rari per il periodo ed il contesto culturale, se li confrontiamo con quelli, più poveri, delle sepolture rinvenute al Riparo del Romito in Calabria o alle Arene Candide in Liguria.”

A: Ora che è in custodia presso il Vostro Dipartimento, quali sono gli studi cui verrà sottoposto? Qual è l’obiettivo della prossima ricerca?
MP: Un check-up dei resti scheletrici umani del Paleolitico è sempre necessario, soprattutto quando gli ultimi studi, come nel caso del nostro cacciatore, sono stati effettuati diversi anni fa o addirittura non hanno preso in considerazione determinati aspetti. Ciò è dovuto al normale progresso scientifico, scandito dalle innovazioni nelle strategie di ricerca, nei metodi analitici e nell’elaborazione dei dati. Per il “cacciatore” abbiamo riservato un esame approfondito della dentatura, la campionatura del tartaro e l’estrazione del DNA. La dentatura rappresenta una fonte di informazioni notevole sulla postura, la crescita, l’alimentazione dell’individuo. La presenza di tartaro e di calcoli vari permette di  indagare sull’alimentazione, mentre il DNA offre grandi possibilità di indagine sulla biologia delle popolazioni paleolitiche.

A: Ci risulta che il “cacciatore di Sovramonte” sia stato ritrovato in un contesto funebre molto interessante, che includerebbe anche una stele. Ce lo conferma? Cosa ci dice questa sepoltura, se di sepoltura volontaria possiamo parlare?
MP: “Certamente il contesto funerario del defunto dei  Ripari di Villabruna figura tra i più interessanti dell’arco alpino, sia per i materiali associati in prossimità dell’individuo, sia per il tumulo di pietre collocato a protezione della fossa. Vari oggetti erano stati collocati raggruppati sul fianco sinistro, all’altezza del bacino: due schegge e un blocco di selce utilizzato come percussore, un ciotolo di siltite anch’esso utilizzato come percussore, un grumo di sostanza resinosa e una punta in osso frammentaria. Di quest’ultimo manufatto sono stati rinvenuti due frammenti ricomposti, la punta e il corpo principale, mentre un terzo, intermedio, venne da noi rinvenuto setacciando il terreno di riempimento della fossa. Ciò suggerisce la frammentazione e la dispersione volontaria di uno dei frammenti all’atto della deposizione dell’inumato, come a rappresentare una cerimonia. La “defunzionalizzazione” di una delle armi del cacciatore e la ricollocazione parziale dei frammenti nel contesto funerario, trova similitudini con quanto emerge dall’etnografia di certi antichi popoli della Siberia. Le pietre, dal canto loro, presentano tratti enigmatici effettuati con l’ocra rossa, ma anche figure umane tra cui la famosa “stele”, una stilizzazione della figura umana. Così è stata interpretata la figura tracciata sempre con ocra rossa sulla faccia piatta di una grande pietra arrotondata che era stata raccolta nel torrente antistante il riparo. La figura  è composta  da un asse principale dal quale si dipartono geometrie a zig-zag in disposizione speculare e nel rispetto di precisi rapporti geometrici. Riteniamo possa raffigurare il defunto con le sue moltiplicate abilità motorie.”

A: Ai nostri lettori piace dare qualche riferimento sulle tecniche, le tecnologie e le metodologie di studio. Quali quelle che prevedete per questa ricerca?
MP: Si tratta di tecniche che permettono di analizzare la morfologia esterna e soprattutto interna dei denti. Tramite la microtomografia si riescono a scansionarne le caratteristiche, misurandone lo spessore dello smalto, ad esempio, oppure a documentare le faccette di usura del piano occlusale. Non escludiamo analisi isotopiche puntuali di campioni di ossa, di tartaro e di vari residui. Queste, e in particolare la determinazione del carbonio, dell’azoto e di altri elementi come lo stronzio,  possono fornire informazioni sulla dieta alimentare seguita dal cacciatore nel corso degli ultimi anni. Ovviamente, l’analisi del DNA richiede microcampionature di polvere ossea e un processo di estrazione complesso.

A: Vi avvarrete di personale/tecnologie interne o lo studio è in collaborazione con altri Enti?
MP: Questo progetto si fregia della collaborazione di centri di ricerca nazionali ed internazionali per l’analisi morfologica e morfometrica, per le microscansioni tomografiche, per l’estrazione del DNA. Ricordiamo il Dipartimento di Antropologia Evolutiva dell’Istituto MaxPlanck a Lipsia, il Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna, Deparment of Palaeoanthropology and Messel Research, Senckemberg Research Institute di   Francoforte, ma non si escludono ulteriori collaborazioni per lo studio degli arti inferiori con l’Università di Cambridge. Ci auguriamo che questa sinergia porti ad ottenere rapidamente risultati di interesse per pubblicazioni scientifiche internazionali di alto livello.

A: Infine, una domanda sulla conservazione del “cacciatore”. Qual è il metodo di conservazione attualmente adottato? Ve ne è uno in programma per il futuro? E, infine, é prevista una collocazione dei reperti accessibile al pubblico?
MP: Non ci sono state prescritte particolari condizioni di conservazione. Per il futuro, è prevista l’esposizione in un Museo, ma si tratta di una decisione di competenza della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto e degli Amministratori Locali. I Musei non mancano nel territorio, ma la creazione di un museo ad Hoc per il “cacciatore” conferirebbe il giusto valore al territorio.

Un sentito grazie al prof. Peresani per la disponibilità.

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Pinerolo: fino al 30 marzo la mostra “La pietra verde del Monviso”

 

La locandina della mostra

Rimarrà aperta e visitabile fino al 30 marzo 2014 la mostra “La pietra verde del Monviso, 7.000 anni fa, dalle Alpi Occidentali all’Europa”  a cura del CeSMAP (Centro Studi e Museo d’Arte Preistorica, Museo Civico di Archeologia e Antropologia di Pinerolo) e della Città di Pinerolo – Assessorato alla Cultura.
La Mostra intende fornire un quadro sintetico ma esaustivo di un fenomeno straordinario e poco noto che è quello delle conoscenze tecnologiche messe in opera per lo sfruttamento di rocce utili per costruire attrezzi ed armi quali punte di freccia, asce e ornamenti come anelli e pendagli, in giadeite o in eclogite fine, materiali comunemente noti ancora oggi come “pietra verde”.
La qualità eccezionale delle rocce provenienti dalle cave preistoriche, attive fin dalla fine del VI millennio a.C. nella zona del Monviso, fu la causa principale della loro commercializzazione per tutta l’Europa, fatto straordinario ed insospettabile per quei remoti tempi. I materiali grezzi e sbozzati, le asce levigate e particolari anelli litici venivano portati a distanze di diverse migliaia di chilometri secondo delle vere e proprie rotte commerciali.
L’esposizione è fondata sui dati archeologici provenienti dagli scavi del Museo di Pinerolo negli anni ‘980, da quelli di antiche collezioni ottocentesche piemontesi e da quelli conservati in molti musei europei. Il confronto antropologico ed etnografico con popolazioni attuali -che usano ancora oggi strumenti di pietra- completa il panorama di questo straordinario fenomeno che, oltre settemila anni fa, caratterizzò il territorio delle Alpi Occidentali.
Va sottolineato che da oltre 10 anni sono attive le prospezioni nelle Alpi Occidentali italiane da parte di ricercatori del CNRS di Francia, guidati da Pierre Pétrequin dell’Università di Besançon. Queste ricerche hanno scoperto giacimenti di giada (giadeite, omfacite, eclogite) attivi dalla fine del VI millennio a. C. e hanno dato origine al Progetto JADE (dell’ Agenzia Nazionale delle Ricerche Scientifiche di Francia), sviluppato dal 2006 al 2010.
Lo sfruttamento delle cave del Monviso, alta Val Po, tra i 1500 e 2400 m slm, ha consentito il prelievo e la sbozzatura della materia prima usata per la produzione delle grandi asce di pietre verdi che sono circolate in tutta l’Europa occidentale nel corso del quinto e quarto millennio a. C., a distanze considerevoli, 3300 km da ovest a est, dall’Irlanda alla Bulgaria, e più di 2000 km da nord a sud, dalla Danimarca alla Sicilia.
La mostra ripercorre la scoperta delle cave di pietra verde delle Alpi, gli standard di produzione delle asce socialmente valorizzate nelle popolazioni dell’Europa preistorica, le modalità del loro trasferimento a lunga distanza, dove le asce con le lame levigate e lucide erano portate negli eventi sociali, quali oggetti di prestigio e di rango utilizzati dalle élite nel corso di rituali religiosi.
Su scala europea, lo studio di circa 1700 asce di giada delle Alpi Occidentali è in grado di offrire oggi un panorama delle società preistoriche del Neolitico molto diverso da quello che pensavamo di conoscere. La formulazione di miti e di oggetti simbolici di giada sono elementi che hanno permesso di fondare una forma teocratica di potere che ha trovato la sua migliore espressione tra le popolazioni preistoriche della Bretagna, attorno al Golfo di Morbihan, dove cominciavano ad allinearsi tumuli giganti e stele monumentali, a partire dalla metà del V millennio a. C.

La circolazione commerciale delle giade alpine del Monviso appare quindi come un fenomeno straordinario e di ampiezza continentale insospettata, nelle società gerarchiche e stratificate della preistoria, dove Varna a est e il golfo di Morbihan a ovest sembrano essere i due poli di dinamiche sociali che hanno animato l’Europa nel corso del V e IV millennio a. C.
Sempre riprendendo la pagina promozionale della mostra ricordiamo l’atelier di Balm’ Chanto. Nel 1979 Franc Bronzat rinveniva sul suolo di un riparo sotto roccia, a 1500 m slm, nella media Val Chisone presso la frazione Seleiraut del Comune di Roure, alcuni cocci di ceramica, frammenti di pietra verde lavorata ed un raschiatoio carenato di selce. Contattò Dario Seglie, Direttore del CeSMAP, Museo Civico di Archeologia e Antropologia di Pinerolo e gli presentò i reperti. Questo è l’inizio delle vicende che portarono il CeSMAP, di concerto con la competente Soprintendenza Archeologica del Piemonte, ad organizzare dal 1981 al 1983, tre campagne di scavi archeologici nel riparo che porta il nome di Balm’ Chanto. I risultati furono eccezionali perché fu portato alla luce un vero e proprio atelier preistorico per la lavorazione della pietra verde. In particolare si scoprì una serie di punte di freccia realizzate in pietra verde levigata, rarissime e quasi ignote in precedenza. Le datazioni radiometriche dei carboni dei focolari trovati nel riparo sotto roccia diedero una data di 4.200 anni fa, fase di transizione dal Neolitico Finale all’Età del Rame. Un caposaldo per lo studio della Preistoria alpina era stato gettato. La dinamica del popolamento antichissimo delle Alpi riceveva nuova luce.
Due le sedi espositive. La prima è la Chiesa di S. Agostino (Via Principi d’Acaja, Pinerolo) che rimane aperta il sabato e la domenica dalle 15.30 alle 18.30, mentre la seconda è la Biblioteca Civica Centrale “Alliaudi” (Via Cesare Battisti 11, Pinerolo) con orari da lunedi al venerdi 9-19 e il secondo e quarto sabato del mese dalle 9 alle 12. Per informazioni tel. 0121 794382 – www.cesmap.it – didatticacesmap@alice.it

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I primi Sapiens arrivarono in Europa 44mila anni fa? Prosegue il dibattito sulla cronologia dell’Uluzziano con un articolo firmato Oxford

E’ da tempo in atto un acceso dibattito  attorno ad una recente ipotesi che attribuisce ai primi rappresentanti della nostra specie alcune marcate innovazioni culturali attribuite tradizionalmente agli ultimi Neandertal. Da tempo si sente la necessità di un quadro cronologico affidabile che marchi il momento in cui l’Uluzziano (la cultura associata ai più antichi resti di Uomo Anatomicamente Moderno) registra la sua prima comparsa e in questo senso può aiutare un nuovo studio con dati provenienti dalla grotta veronese di Fumane. In questo scritto pubblicato sul Journal of Human Evolution, sono state registrate datazioni di campioni di ossa e di carboni contenuti nella successione stratigrafica che – a Fumane – collocano questo evento attorno a 44mila anni fa. Questo articolo può costituire un passo importante per ricostruire la mappa demografica europea e verificare possibili contatti tra le due specie umane, in quanto aiuterebbe a marcare il momento in cui l’Uluzziano registra la sua prima comparsa in Europa.
Ricordiamo che l’Uluzziano è una cultura materiale definita come “complesso di transizione”, il cui nome si rifà alla Baia di Uluzzo in Puglia e risale cronologicamente al passaggio avvenuto circa 40 mila anni fa dal Paleolitico Medio al Paleolitico Superiore. In quel momento in Europa scompare il Neandertal e si diffonde il Sapiens. Fondamentale per questi studi sono le ricerche svolte sui reperti emersi presso la Grotta del Cavallo in Puglia (sulla baia di Uluzzo, appunto), dove – grazie agli studi resi noti nel 2011 da un team di ricercatori guidato da Stefano Benazzi del Dipartimento di Antropologia dell’Università di Vienna – è attestata la presenza dei primi sapiens europei. Lo studio in questione ha riesaminato due molari scoperti negli anni Sessanta nella grotta pugliese. L’analisi della morfologia dei due denti, effettuato attraverso una microtomografia computerizzata, ha rivelato che essi appartengono a Homo sapiens e non sono quindi neandertaliani, come si era invece sempre creduto. L’Uluzziano divenne così una cultura sapiens e non più neanderthalensis. Di conseguenza, in Puglia stanno le più antiche testimonianze dell’uomo moderno in Europa, risalenti a 45mila anni fa.
In questo filone di ricerche si inserisce un altro studio, pubblicato su Nature, che conferma che i sapiens arrivarono in Europa molto tempo prima di quanto creduto finora. Il team inglese guidato da Thomas Higham dell’Università di Oxford, nel 2011 sottopose a nuovi esami un frammento di mascella umana proveniente da una grotta inglese, la Kents Cavern. Sulla base dell’esame morfologico effettuato, questa mascella é databile a circa 44 mila anni fa e apparterrebbe a Homo sapiens.
Secondo molti studiosi, la cultura dell’Uluzziano, in cui compaiono elementi di innovazione come strumenti in osso, oggetti ornamentali e decorativi, rappresenterebbe la prova diretta che gli ultimi Neandertal europei avrebbero raggiunto elevate capacità cognitive e assunto comportamenti simbolici del tutto simili a quelli dell’uomo moderno, ben prima però dell’arrivo dei sapiens in Europa e in maniera indipendente. Se però l’Uluzziano fosse sapiens, allora questa prospettiva dovrebbe (nuovamente) cambiare.
La novità di questi giorni é la pubblicazione dell’articolo annunciato in apertura, in cui gli stessi ricercatori che avevano sottoposto alcune conchiglie ornamentali ritrovate insieme ai due molari nella Grotta del Cavallo, a una nuova datazione al radiocarbonio utilizzando una metodologia messa a punto dall’Oxford Radiocarbon Accelerator Unit, presentano gli studi compiuti anche a Fumane. “On the chronology of the Uluzzian”, titolo del pezzo pubblicato sulla rivista online Journal of Human Evolution, fa il punto sulla cronologia dell’Uluzziano in Italia e in Grecia ed é firmato da vari specialisti dell’Università di Oxford attivi nella datazione della Grotta di Fumane e di altri archeologi italiani.
Pertanto, le dinamiche del popolamento europeo sono di fronte a una nuova ipotesi e, soprattutto, potrebbero ridimensionare la presunta evoluzione delle capacità cognitive e tecnologiche dei Neandertal, retrodatando contemporaneamente di migliaia di anni  l’arrivo dei sapiens in Europa meridionale.
L’articolo è parzialmente consultabile e acquistabile a questo link

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Online il sito web dedicato alla produzione scientifica della Grotta di Fumane

Immagine tratta da www.unife.it

E’ online da ieri il sito web dedicato esclusivamente alle attività e alla produzione scientifica della Grotta di Fumane (VR): http://grottadifumane.eu/


Molte le informazioni relative all’eccezionale contenuto archeologico e paleoantropologico della grotta veronese, con focus sulle ricerche passate, sui progetti di ricerca attivi e sulle pubblicazioni. Oltre alla ricca photogallery, segnaliamo la possibilità di scaricare articoli sulla grotta e sulle tematiche di ricerca. Si attendono aggiornamenti settimanali.

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Ricercatori italiani sulle tracce dei vertebrati marini del Cenozoico nel deserto peruviano

 

Immagine tratta da greenreport.it

Rilanciamo volentieri la news pubblicata da greenreport.it che annuncia il ritorno in Peru di ricercatori italiani che –seppur non archeologi – scavano nel deserto per svelare nuovi indizi del passato del nostro Pianeta, prima che l’uomo vi facesse la sua apparizione. Parliamo del team  di paleontologi guidato da Giovanni Bianucci dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che ha ottenuto dal MIUR un finanziamento PRIN di 252.605 euro per per un nuovo progetto di ricerca nel deserto di Ica, in Peru, a sud di Lima
Lo stesso team qualche anno fa fu protagonista del recupero del cosiddetto “Leviatano” (Livyathan melvillei), identificato come il “mostro” marino evocato da Melville nel suo “Moby Dick”. La zona che si estende per 300 chilometri da Pisco a Yaucha ha la caratteristica di essere un giacimento ricchissimo di fossili di vertebrati marini risalenti a diverse epoche del Cenozoico (da 45 a 2,5 milioni di anni fa). Nel nuovo progetto i ricercatori italiani si concentreranno sullo studio della relazione tra l’alta densità degli individui presenti in quel particolare ambiente costiero, l’aumento della produttività primaria e l’apporto di cenere vulcanica come fattore di fertilizzazione delle acque. “Gli argomenti trattati in questo progetto sono di grande impatto e interesse per la comunità scientifica internazionale – spiega Bianucci nell’articolo di green report.it – a partire dal fatto che viene investigato il Konservat- Lagerstätte (giacimento per conservazione) a vertebrati marini neogenici più significativo e famoso a livello mondiale, un vero e proprio laboratorio naturale dell’evoluzione dove sono stati scoperti fossili straordinari. La nostra ricerca potrà inoltre fornire un solido contributo per ricostruire con maggiore dettaglio i pattern relativi ai cambiamenti della diversità e della produttività primaria, utilizzando il record fossile per ricostruire le dinamiche evolutive di questi ecosistemi marini e delle loro complesse relazioni trofiche. Infine, per la prima volta viene condotto uno studio che analizza in dettaglio all’interno del record fossile le relazioni tra apporto di cenere vulcanica a mare e incremento della produttività primaria, un tema che ha grandi implicazioni anche per lo studio dei cambiamenti climatici del passato”.
Tre le unità coinvolte nel progetto: oltre al dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa (che ne è sede), collaborano anche il dipartimento di Scienze dell’Ambiente e del Territorio e di Scienze della Terra dell’Università di Milano Bicocca e il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Camerino. L’unità di Pisa si occuperà degli aspetti che riguardano la paleontologia dei vertebrati (tassonomia, tafonomia, filogenesi), la micropaleontologia (diatomee) e la vulcanologia.

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“L’origine dell’uomo” – A Roma il XLI seminario sull’evoluzione biologica (18 e 19 febbraio 2014)

Si terrà il 18 e 19 febbraio prossimi a Roma presso l’Accademia Nazionale dei Lincei – Centro Linceo Interdisciplinare “Beniamino Segre” il XLI seminario sulla evoluzione biologica e i grandi problemi della biologia.
“L’origine dell’uomo”- questo il titolo dell’incontro – vede nel comitato ordinatore i professori M. Brunori, L. Bullini, E. Capanna, G. Chieffi, G. Forti, L. Martini, F. Papi e A. Pignatti.
Il programma provvisorio vede l’apertura di martedì 18 febbraio alle 9,15 con i saluti di Ernesto Carafoli (Linceo, Università di Padova) e Gianantonio Danieli (Linceo, Università di Padova), del comitato organizzatore e l’introduzione presieduta da Giorgio Manzi.
Alle 9,30 Telmo Pievani (Università di Padova) presenta “Anelli mancanti” ed altri fraintendimenti sull’evoluzione umana”, seguito alle 10.10 da Maria Rita Palombo (Sapienza Università di Roma) con la relazione “Quale scenario per la dispersione dei primi gruppi umani in Eurasia?”. Dopo un breve intervallo alle 11,10 Donatella Magri (Sapienza Università di Roma) presenta “Evoluzione del paesaggio vegetale nel Quaternario” seguita alle 11.50 da Claudio Tuniz (International Centre for Theoretical Physics, Trieste) con “Nuovi orologi e microscopi per la Paleoantropologia” e alle 12.30 da Davide Caramelli (Università di Firenze) con “Analisi del DNA antico: nuove prospettive su vecchi campioni”.
Nel pomeriggio alle 14.30 Jacopo Moggi-Cecchi (Università di Firenze) inizia la sessione con “Le più antiche evidenze della linea evolutiva umana”. Alle 15.10 Alfredo Coppa (Sapienza Università di Roma) relaziona su “A metà del cammino di Homo: recenti scoperte dalla Dancalia (Eritrea)” e alle 16,10 Giorgio Manzi (Sapienza Università di Roma) presenta “Homo heidelbergensis: l’umanità di mezzo alle origini di Neandertal e di Homo sapiens”. Chiude la giornata alle 16,50 Giacomo Giacobini (Università di Torino) con “L’uomo di Neandertal: tra mito e realtà”.
Mercoledì 19 febbraio il programma, presieduto da Ernesto Carafoli, si apre alle 9,30 con Fabio Di Vincezno (Sapienza Università di Roma): “Evoluzione del cervello nel genere Homo ed evoluzione del linguaggio”, seguito alle 10.10 da Francesco D’Errico (CNRS UMR – Université de Bordeaux) con “Origini del pensiero simbolico e della creatività umana”. Intervallo e poi alle 11,10 11.10 Marco Peresani (Università di Ferrara) presenta la sua relazione “Evidenze del pensiero simbolico Neandertaliano” seguito alle 11.50 da Guido Barbuiani  (Università di Ferrara) con “Perché non possiamo non dirci africani”
Il pomeriggio, con la presidenza di Gianantonio Danieli vede alle 14 l’apertura di Olga Rickards (Università di Roma Tor Vergata) con “Nuovi indizi sull’estinzione dei neandertaliani” seguita alle 14,40 da Donata Luiselli (Università di Bologna) con “Popolamento del pianeta, variabilità inter ed intra-popolazioni”. Alle 15.20 Giuseppe O. Longo (Università di Trieste) relaziona su “Evoluzione culturale: verso il post-umano?” e alle 16 le conclusioni affidate a Ernesto Carafoli.
Le lezioni, seguite da discussione, sono destinate agli studenti e ai professori della scuola secondaria e ai cultori delle discipline biologiche. Gli insegnanti che desiderino far partecipare al Seminario un numero, necessariamente ristretto, di alunni sono pregati di concordare preventivamente tali presenze con la Segreteria dell’Accademia (Pietro Piemontese, tel. 06/68.02.73.98 – fax 06/689.36.16 – piemontese@lincei.it).
Il sito web di riferimento è www.lincei.it mentre la segreteria del convegno risponde alla mail  piemontese@lincei.it
L’incontro si tiene alla Palazzina dell’auditorio, in via della Lungara 230, Roma. Fino alle ore 10 è possibile l’accesso da Lungotevere della Farnesina.

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Tavola rotonda di archeologia, antropologia e storia di Ancash al castello sforzesco di Milano

Tratta da turismoancasesho.com

Si terrà dal 17 al 19 aprile 2014 presso il Castello Sforzesco di Milano la tavola rotonda di archeologia, antropologia e storia di Ancash (Perù).
Gli organizzatori ci hanno fatto avere questo annuncio che diffondiamo volentieri alla nostra comunità di lettori, rivolgendoci in particolare agli specialisti, per i quali é aperta una call for papers.
Ancash è una regione peruviana dal paesaggio variegato e la cui storia indigena e coloniale è molto ricca. Questa area è uno scenario chiave per l’archeologia, l’antropologia, la storia e la linguistica andina.
Dieci millenni di occupazione umana ne hanno fatto un luogo fondamentale per lo studio delle dinamiche sociali e politiche. La vicinanza a deserti, calli, altipiani, boschi e ghiacciai hanno fatto si che qui si potesse e si possa analizzare la forza pilota dell’immanenza e del cambiamento. Gli agenti ambientali locali e regionali, le forzo sociopolitiche interne come esterne, le tecnologie inventate, adottate e abbandonate, così come le multiple manifestazioni delle comsovisioni del passato e del presente: tutto questo è Ancash!
Oggi la regione è importante anche per gli studi inerenti il cambio climatico, con focus sulla biodiversità, la resilienza culturale e le trasformazioni socio economiche. Questi i temi che la tavola rotonda intende affrontare e per i quali invita archeologi, antropologi, storici che hanno lavorato e lavorano nel paesaggio di Ancash a proporre i propri studi interdisciplinari. La “Mesa Redonda de Arqueología, Antropología e Historia de Ancash” attende le proposte dei ricercatori. Sarà necessario fornire un titolo e un riassunto tra le 300 e le 500 parole oltre ai dati di contatto e l’affiliazione istituzionale. Secondo la tradizione delle precedenti riunioni accademiche regionali (Cambridge 2003, Milano 2005, Norwich 2010 e Casma 2012), ogni relatore avrà a disposizione 40 minuti per la propria dissertazione che dovrà tenersi in spagnolo o inglese, considerando a seguire 20 minuti per il dibattito.
Si ricorda di presentarsi anche con una presentazione digitale proiettabile in sala. La data limite per l’invio delle proposte è il 28 febbraio 2014. Non vi è alcun costo di partecipazione. Per informazioni e iscrizioni contattare Alexander Herrera alla mail alherrer@uniandes.edu.co, oppure Carolina Orsini alla mail Carolina.Orsini@comune.milano.it

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Scoperto a Timor un arpione di 35.000 anni fa

 

Foto di S. O'Connor

E’ dell’età della Pietra e datato ad oltre 35.000 anni fa l’arpione ritrovato da poco sull’isola di Timor – tra Papua e Nuova Guinea – dal team archeologico della Australian National University di Canbera guidato dalla professoressa Sue O’Connor e annunciato su science news dopo che l’annuncio é stato dato il 15 gennaio nel Journal of Human Evolution.
L’arpione in osso ha delle parti incise –tre per parte – e presenta dei residui di materiale colloso lasciano pensare che sarebbe stato incollato ad un manico di legno o inserito in un’asta per essere usato anche come lancia al fine di cacciare i più grandi pesci del mare.  Secondo la ricostruzione dell’archeologa O’Connor, gli isolani usavano pescare con queste lance, che gettavano in mare stando sulle loro barche.
Altri siti archeologici nella regione hanno restituito armi che la cui datazione più antica è di poche centinaia di anni. Questo nuovo ritrovamento comproverebbe che nelle isole del Pacifico le armi complesse (manufatti) erano prodotte molte migliaia di anni prima di quanto pensato fino ad oggi. Una scoperta che può certamente aiutare a rivedere i tempi e i modi con cui la nostra specie ha vissuto l’arrivo nel Pacifico.
Ricordiamo che le ultime ricerche genetiche (ci basiamo su pubblicazioni del 2012 ) attestano non lontano da Timor la presenza di due specie ominini ovvero l’Homo erectus soloensis (arrivato in Indonesia 1,8 milioni di anni fa con la prima diaspora africana) e l’homo Heidelbergensis (che era presente sempre in Indonesia fino a 150mila anni fa). La terza uscita dall’Africa, protagonisti gli Homo Sapiens, è giunta in Australasia (allora un tutt’uno tra attuale Papua Nuova Guinea e Australia) nel 60.000 prima della nostra era.
La stessa professoressa O’Connor ha fatto notare come le lance in osso africane datate ad 80-90mila anni fa presentano incisioni simili a quelle dell’arpione di Timor!

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Intervista a Gary R. Ziegler – archeologo e co-auore del nuovo libro “Machu Picchu’s Sacred Sisters: Choquequirao & Llactapata”

“Machu Picchu’s Sacred Sisters, Choquequirao and Llactapata – Astronomy, Symbolism and Sacred Geography in the Inca Heartland” di Gary R. Ziegler e J. McKim Malville è stato appena pubblicato (acquistabile su Amazon a questo link). Pubblicato da Johnson Books di Boulder (Colorado-USA), il testo è un compendio molto leggibile di storie avventurose, note tratte dal giornale di esplorazione e dati archeologici molto precisi con descrizioni e interpretazioni raccolte in oltre 40 anni di esplorazione archeologia estrema nelle remote Ande peruviane.

Ci piace iniziare il 2014 con la traduzione in italiano di questa intervista, da noi pubbicata in lingua originale (inglese) nel dicembre del 2013.

Abbiamo contattato uno degli autori, l’archeologo americano, Gary Ziegler. Gary è un Fellow of the Royal Geographical Society of London e dell’ Explorers Club di New York e nel 2013 è stato riconosciuto come Distinguished Lecturer dalla NASA. Tra le sue imprese sono da ricordare diverse scoperte di siti archeologici e alcune ascensioni in prima assoluta di ghiacciai peruviani. Tra gli altri, ha lavorato per National Geographic ed ora vive in Colorado dove è a capo del locale Soccorso (“Search and Rescue”). Coautore del volume è l’archeoastronomo Kim Malville, Professore emerito al Department of Astrophysical and Planetary Sciences of University of Colorado (Boulder, USA)e Professore Associato alla  James Cook University (Townsville, Northern Queensland, Australia).

Arkeomount(A): “Gary, hai scritto questo libro con Kim Malville e in una mail ci hai scritto che state lavorando insieme a questo volume da diversi anni.Il lettore può trovare nel testo storie di esplorazioni, note dal campo e dati archeologici molto precisi, oltre alle descrizioni e interpretazioni raccolte in anni di esplorazioni archeologiche estreme negli angoli più remoti delle Ande peruviane. Dopo così tanti studi approfonditi su Machu Picchu, negli ultimi anni ti sei focalizzato su due altri complessi archeologici incaici: Choqueqirao e Llactapata, perfettamente descritti nel libro. Qual era, se esiste, la connessione tra questi due complessi e  Machu Picchu? Hai definito queste due città “le sorelle sacre di Machu Picchu”: gli Inca vissero e “usarono” insieme questi tre complessi? Come? Siamo di fronte a un modello (“pattern”) replicato più e più volte nelle Ande del Peru?

 

Credits: G. Ziegler

Gary Ziegler (GZ): “Choquequirao e Machu Picchu servivano come centri multiuso, pensati e costruiti per sostenere un calendario di attività cerimoniali lungo tutto l’anno, oltre che funzioni amministrative regionali e attività di tipo statale. Questi importanti siti nel cuore delle terre Inca erano parte di un network di proprietà reali che erano estensioni della capitale reale, Cusco.
L’ Inca Pachacuti stabilì un modello per le proprietà reali durante il periodo di massima espansione imperiale incaica lungo tutto il Sud America. Fu lui a costruire proprietà in Pisac e Ollantaytambo, che erano città pre-esistenti con attività cerimoniali, nonché Machu Picchu.
Le incredibili costruzioni di Pisac e Machu Picchu sembrano essere state costruite su di un modello seguito anche a Choquequirao. Costruzioni di grande importanza e “high-status” erano centrate su di un elemento alto che si confrontava con un picco e con un promontorio (posti di fronte) da cui era separato da un fiume sacro, visibile in basso. Ogni elemento alto disponeva di una serie di fontane o bagni che li collegava. L’esperienza dalle investigazioni sul campo ci ha portato alla conclusione che quegli importanti e monumentali siti Inca erano pianificati e disegnati con molta attenzione e precisione in accordo a allineamenti astronomici precisi e posti di conseguenza in relazione altrettanto precisa a fiumi sacri, montagne e fenomeni celesti.Choquequirao e Machu Picchu confermano questa interpretazione. Entrambe sono poste alla convergenza (unica) di territori sacri in collegamento con eventi celesti molto importanti per le religione statale Inca e con la tradione religiosa andina. Sebbene non fosse una proprietà seprata, Llacatapata è un importante città sorella connessa a Machu Picchu in una relazione unica e univoca. Posta a meno di tre miglia (equivalenti ad alcune ore di viaggio al tempo degli Inca), Llactapata era un complesso operativo in cui si distinguono gruppi interconnessi, aspetti cerimoniali , templi, “usnu”, un settore dedicato al culto delle acque e un ampio distretto urbano e agricolo destinato al sostentamento della corte reale di Pachacuti. L’identificazione e lo studio del sito archeologico di Llactapata ha aggiunto significanti indicazioni alla nostra conoscenza e comprensione di Machu Picchu che era una sorta di centro (hub) di un complesso vicino, intenzionalmente posto vicino e relazionato in maniera molto stretta a siti cerimoniali che si estendevano da lì verso Cusco e verso il più lontano fiume Vilcabamba.

A: Abbiamo trovato il libro molto interessante anche per le dettagliate indicazioni astronomiche e gli allineamenti che avete riscontrato in entrambi i siti. Puoi dirci qualcosa sulla metodologia che avete usato per raccogliere i dati archeo-astronomici? Qual è il tuo kit per un survey astronomico? Quante volte siete dovuti andare in sito per raccogliere questi dati? Infine, quante persone hanno lavorato con voi sul campo?

GZ: Abbiamo iniziato gli studi preliminari sul campo sulla base delle conoscenze azimutali relazionate ai principali eventi astronomici come i solstizi. Sono state effettuate misurazioni con un compasso da campo per mentre effettuavamo una mappa o un diagramma di campo. Quando è servita maggior precisione, come al Tempio del Sole di Llactapata, siamo tornai più volte con un teodolite e un tripode. A seguire un estratto dalle nostre note di campo (che sono nel libro):

Note
15. Il primo passo per esaminare una struttura per la prima volta è determinarne la dimensione, forma e allineamento.Dopo aver fatto un po’ di pulizia con un macete per garantire l’accesso, si fanno misurazioni con un coompasso da campo di finestre per l’allineamento, le finestre e i muri perimetrali. Impariamo un sacco di cose sui siti di montagna Inca attraverso lo studio congiunto degli angoli delle strutture e delle probabili linee di traguardo. Anche il layout generale di gruppi di strutture o di elementi viene valutato fin dall’inizio dello studio. Una regola generale è di traguardare direttamente una porta d’ingresso o una finestra per comprendere l’angolo di visuale che consente. E’ necessario conoscere gli azimuth magnetici per importanti eventi Inca come l’alba e il tramonto dei solstizi calcolati anche da postazioni elevate rispetto il terreno. Ad esempio un corridoio lungo 50 yard a Llactapata guarda (“punta”) direttamente verso il centro di Machu Picchu, posto a circa 2 miglia ad un angolo di 64.3 degrees, ovvero l’angolo dell’alba del solstizio di giugno sull’orizzonte lontano, nonché prossimo all’alba dell’importante costellazione delle Pleiadi che sta a 67 gradi. Un interpretazione ragionevole è che il corridoio era intenzionalmente costruito per vedere questi eventi quando apparivano sopra Machu Picchu. Queste ed altre evidenze ci hanno consentito di concludere che questa era una caratteristica di un tempio del sole come quello del Coricancha a Cusco.

 

Vista verso il solstizio di giugno dalla piazza inferiore di Choquequirao. Credits: G. Ziegler

I progetti hanno visto collaborare da due persone (gli autori, ndr) fino a 17 persone, soprattutto nelle prime fasi di esplorazione e svelamento di Llactapata, grazie al supporto di lavoratori locali muniti di macete. Siamo tornati sul posto per almeno una settimana ogni stagione secca di tre anni in tre anni. Choquequirao era un progetto più ampio che ha coinvolto diversi team provenienti anche da agenzie governative come la COPESCO che vi ha lavorato annualmente sotto la direzione dell’archeologo di Cusco, Percy Paz. Abbiamo lavorato insieme condividendo dati e progetti mentre coinvolgevo piccoli gruppi di volontari per brevi periodo ogni anno.

A: Hai scritto a proposito delle “shaped stones” (pietre replicative) definendole pietre scolpite dall’uomo per replicare altri elementi del paesaggio come le montagne. Le possiamo trovare nelle Ande come a Machu Picchu, ma hai scritto che probabilmente ce ne erano anche a Choqueqirao. Secondo il ricercatore inglese Richard Bradley, i luoghi naturali sono da considerarsi parte dei dati archeologici: concordi?

GZ: Yes – Concordo molto. Il paesaggio naturale è intimamente collegato e incorporato nel design dei siti Inca. Ogni interpretazione del significato delle strutture Inca e delle loro caratteristiche come le shaped-stones e le “huacas”, devono essere incluse nell’analisi. Teorizzando un po’, una shaped-stone che replica una prominente e vicina montagna (ovvero un “apu”) può essere stata intesa clme un elemento in grado di portare il potere spirituale della montagna verso la huaca (“luogo sacro” ndr), in modo da rendere più potente l’oggetto locale o tutto il sito.

A: Zuidema e Bauer hanno provato che il sistema dei “seque” – una sorta di strato invisibile con centro in Cusco su cui gli Inca ponevano volontariamente i loro siti sacri e/o dove tenevano le loro cerimonie – era una realtà tra gli Inca. Pensi che al principio della loro civiltà gli Inca dessero un importanza speciale agli elementi inalterati del paesaggio e che solo poi avessero iniziato a manipolare tali elementi naturali per replicare “huacas” e cime di montagne (“apu”)? Puoi confermarci che la pratica delle “replication stones” era abituale nelle Ande inca?

GZ: Gli Inca erano figli di tradizioni culturali e credenze millenarie e la spiritualità andina che incorporavano mentre imponevano il loro culto del sole ne teneva conto. Il sistema dei “seque” poteva essere un esempio del genio Inca nell’organizzazione dello spazio e del tempo che sosteneva  i loro orizzonti culturali. Certamente modificare caratteristiche naturali era una parte della tradizione andina che gli Inca hanno continuato a praticare. E’ plausibile che ci fossero esempi più antichi di replicazione, tuttavia non posso dire con certezza che le “ replication stones” erano una tradizione comune. So solo che pochi siti Inca le avevano, nonostante pietre “huaca” modificate o inalterate erano comuni in ogni sito.

A: Secondo i tuoi dati e le tue conoscenze, ma anche sulla base del tuo istinto, credi che ci siano altri “complessi” Inca – o meglio altre “città abbandonate” – che devono essere ancora scoperte? Se si, cosa ti fa pensare che sia così e cosa ci puoi dire a proposito? Infine, per completare la domanda: stai pensando di lavorarci su e cercarle?

GZ: Vaste aree montagnose e coperte dalla foresta sono ancora da esplorare completamente nelle Ande. Di certo numerose rovine nascoste e persino una o due “città perdute” sono ancora da trovarsi, seppur non della magnificenza di Machu Picchu e probabilmente non costruite dagli Inca. Alcuni siti non documentati a Chachapoya posti quasi sulla cima di ogni montagna del Peru centro-nord sono nelle province di Amazonas e Loreto. Pochi visitatori si avventurano lontano dalle rotte turistiche di Cajamarca o oltre la fortezza ormai ben nota di Kuelop. Nelle due occasioni che ci siamo recati in quelle regioni, i nostri team di esplorazione hanno trovato rovine interessanti , le prime nel 1997 e ancora tre anni dopo. Ora che il lavoro a Choquequirao è praticamente terminato e il libro scritto, spero di poter investigare quel gruppo di rovine che abbiamo brevemente visitato nella spedizione più recente.

Una nota dal mio giornale di campo:

Mura molto friabili e nascoste, alte e parte di case dalla forma tonda cui si aggiungono misteriose forme invitano alla curiosità da sotto un denso e scuro foliage, posto su un ripido e scivoloso terreno. Purtroppo non abbiamo tempo e dobbiamo tornare a Lima. Prendo nota delle coordinate – torneremo. Per i più avventurosi e coraggiosi, l città perduta è ancora lì.

A: Nella sua premessa al vosto libro, John Hemming (Ex Direttore della Royal Geographical Society) ricorda l’italiano Antonio Raimondi  come uno “dei più grandi geografi del peru, che non ha mai raggiunto Choquequirao, ma che era certo fosse la Vilcabamba di Manco Capac”). Raimondi lavorò basandosi sia sulle croniche spagnole sia sui dati delle sue esplorazioni. Pensi che le cronache spagnole abbiano ancora qualcosa da dirci per guidarci verso nuove scoperte tra le Ande?O pensi che le nuove tecnologie per i survey e le esplorazioni debbano essere predominanti in questo tipo di ricerca?

GZ: Le tecnologie recenti, in remoto come i sensori LIDAR aviotrasportati o altre nuove tecniche possono aiutare ma mettere gli stivali nel fango e affilare macete sono ancora attività richieste per “spelare” i misteri (“to peel back the mysteries” nell’intervista originale, ndr) . I documenti derivanti dai primi anni di conquista spagnola continuano a svelarsi, sia in Peru che in Spagna. Un importante elemento della buona scolarizzazione è la ricerca e l’utilizzo di informazioni da queste fonti. L’aspetto più eccitante dello studio Inca è l’applicazione e la comparazione di documenti a fatti storici e evidenze archeologiche dal campo, che risultano tanto frequenti quanto contradditori. Amo un buon enigma…

A: Grazie Gary!

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Riparo Gaban in esposizione a Trento

Venere neoolitica dal Riparo Gaban (TN) - crredits MUSE

Non siamo tipi da mercatini e così a Trento ci siamo stati in questi giorni che precedono le feste invernali, ma non per visitare i mercatini, bensì per ammirare il nuovo Museo delle Scienze MUSE, attratti dall’esposizione di molti reperti recuperati al Riparo Gaban.
Si accede all’esposizione dedicata alla preistoria tramite una struttura a spirale che ammettono a dei pannelli che illustrano le principali fasi dell’evoluzione culturale, economica e sociale nella preistoria delle Alpi. Come cita la cartella stampa “si può ripercorrere la presenza dell’uomo di Neanderthal sui massicci alpini meridionali risparmiati dai ghiacciai nel Paleolitico medio, l’arrivo di Homo sapiens al termine delle grandi glaciazioni nel Paleolitico superiore e la sua diffusione all’interno delle vallate alpine nel Mesolitico. Si giungerà infine al Neolitico con l’introduzione di agricoltura ed allevamento e la grande innovazione tecnologica della lavorazione dei metalli nella protostoria”.
Il MUSE è studiato secondo modelli anglosassoni, con un impostazione che tende a coinvolgere il visitatore di ogni età, con “pezzi” di grande impatto visivo per attirare l’attenzione dei più piccoli e informazioni scientifiche in forma tecnologicamente accattivante per i “geek” contemporanei, ma senza mai abbandonare la rigorosità scientifica di un’ottima divulgazione.
Ecco allora, che dopo essere stati attratti dalle ricostruzioni di homo esposte a grandezza naturale (sembrano esseri umani vivi!) sbirciamo nelle vetrine e possiamo ammirare gli straordinari reperti recuperati dagli scavi archeologici al Riparo Gaban, situato in provincia di Trento (località Piazzina di Martignano), in una valletta pensile che corre parallela al fianco sinistro della Valle dell’Adige, a circa 80 m dal fondovalle. Alto 10 metri, profondo 6 e lungo circa 60 metri, il riparo si sviluppa nel rosso ammonitico veronese e gli scavi (dal primo nel 1970 fino a quello del 1985) hanno documentato una frequentazione dal Mesolitico al Bronzo. Al momento si sta scavando l’area attualmente a ridosso del riparo (una superficie di circa 60 mq) divisa in 5 settori (I-V). La serie stratigrafica inizia a –1.40 m dall’attuale piano di campagna e si sviluppa  fino a –6 m. La sua sequenza è in parte ancora oggi leggibile nel settore IV. Procedendo dal basso verso l’alto essa può essere descritta nel modo seguente:
-depositi mesolitici sauveterriani e depositi mesolitici castelnoviani, accompagnati da oggetti d’arte mobiliare geometrici, zoomorfi e antropomorfi;
-depositi del Primo Neolitico con la presenza della prima ceramica del gruppo Gaban, accompagnati da oggetti d’arte mobiliare; tracce del Neolitico Medio iniziale della fase della Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata;
-depositi dell’Età del Rame;
-depositi della fine dell’Età del Rame-inizio Età del Bronzo Antico;
-depositi dell’Età del Bronzo Antico;
-depositi dell’Età del Bronzo Antico, aspetti finali;
depositi dell’Età del Bronzo Medio.

Eccezionali gli oggetti d’arte provenienti rispettivamente dai livelli mesolitici e neolitici che appartengono alla complessa sfera rituale e spirituale dell’uomo preistorico e che, allo stato attuale delle ricerche, non hanno riscontro nei pochi ritrovamenti di arte mobiliare di età mesolitica nell’arco alpino meridionale. Parte dei ritrovamenti si trovano in depositi all’interno di strutture (“buche”) contenenti industrie sauveterriane e castelnoviane, rimaneggiate già in età mesolitica. Le raffigurazioni sono tutte incise su osso e terminazione di corno di cervo. A parte la figuretta antropomorfa a tutto tondo su corno di cervo, prevalgono le rappresentazioni lineari con sintassi geometriche organizzate. Sono presenti anche semplici figure lineari ed a segmento. Strabiliante la figura femminile realizzata in bassorilievo su corno di cervo, ma notevoli anche i manufatti in osso incisi o i corredi neolitici come la piccola figura femminile stilizzata su placca ossea o quella ottenuta su un molare di cinghiale, fino all’ omero di cinghiale decorato con motivi geometrici, una raffigurazione di pesce su placchetta ossea, un frammento di femore umano che reca incisi motivi geometrici, un volto umano ed infine un ciottolo antropomorfo con decorazione antropomorfa.

Nell’immagine concessa ad Arkeomount.com dal MUSE ammiriamo una Venere del neolitico.
Figuretta femminile con abbozzo delle braccia a gruccia su placca ossea desinente a punta. È decorata su entrambe le facce. La testa è ben distinguibile ed è separata dal corpo da un collo assottigliato. Il volto è delimitato da un ovale parzialmente in basso rilievo con piccoli occhi puntiformi e bocca a doppio ovale inciso. Nella parte posteriore sono raffigurati capelli sciolti mediante incisioni verticali. La base del collo è sottolineata da una collana con un pendente a semiluna, ottenuta con profonda incisione. Le braccia sono a gruccia, i seni non plastici sono messi in risalto da due profonde incisioni a U che li separano dalle braccia e ne segnano il contorno inferiore e da un abbassamento del corpo fino all’altezza della vita. Al di sotto corre una fascia arcuata campita da otto lineette incise interpretabili come decorazione di una cintura. Nella parte centrale è rappresentata la vulva sormontata da una figura incisa a spina di pesce (linea verticale centrale con ai lati rispettivamente quattro linee oblique: è l’albero della vita?). Segue una fascia campita a reticolo sottolineata da due profonde tacche incise ad andamento orizzontale interrotte ai lati. Uno spesso strato di ocra rossa steso su una base calcarea ricopre la faccia inferiore a eccezione dei capelli e di tutta la parte basale della faccia anteriore fino alla cintura.

Responsabile scientifico dell’esposizione è la dott.ssa Annaluisa Pedrotti dell’Università di Trento che stiamo cercando di contattare per avere da lei qualche dettaglio in più.
Nel 2014 speriamo di potervi dare maggiori ragguagli sullo stato dell’arte degli studi al Riparo Gaban.

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